Il gran tuffo nel cosmo (India 5)

Poi arriva il momento in cui devi lasciar andare ogni cosa e fare il gran tuffo nel cosmo, e quel cosmo sei te. Questo pensiero mi era arrivato appena la macchina aveva smesso di andare in verticale, in mezzo ai coni sempre più vicini della catena himalayana, e si era messa in piano, giunta alla nostra nuova stazione del viaggio, Dwaharat. Un luogo magico, in cui sembra sospeso il normale scorrere del tempo e dove pare agisca una legge nuova, in cui ogni cosa si manifesta nella propria essenza e si muove in un’atmosfera di pace, che non si può tradurre con la semplice pace terrena.

Non è stata una sorpresa, allora, se la prima notizia che mi è arrivata da un giovane, nella guesthouse dove avrei trascorso le successive tre notti, è stata che il mio telefono lì sarebbe stato fuori uso e che da lì non c’era modo per connettermi con il mio mondo. Ho dunque fatto in modo di avvertire, per vie complesse ma necessarie, le persone care che avrebbero aspettato mie notizie, e mi sono abituata al silenzio come alla cosa più giusta che a quel punto mi potesse accadere. Di fronte c’era la grotta del grande Mahavatar Babaji, il maestro dei maestri di quest’epoca, che si dice permanga nel corpo dopo oltre 5000 anni e che si aggiri da queste parti, e sapevo che qui avrei avuto un po’ l’esito di tutto il mio tour.

Finora, ogni momento duro poteva essere addolcito con un messaggio a chi mi segue e mi sostiene con amore, ogni volta che il contorno mi pareva straniero potevo rifugiarmi in uno spezzone di vita noto o anche nelle parole con cui comunico questo viaggio, ma qui ho sentito perfettamente che alla fine anche le cose buone con cui cerchiamo di tenere in armonia le nostre giornate – una musica ispirante, un mantra, gli amici, o anche le varie figure con cui rendiamo vicini gli Dei – sono una pelle che ancora non è quella coscienza assoluta e senza forma che l’unica verità finale. Come se, per paura o impreparazione a guardarla in faccia, dovessimo tenerci a tante maniglie, e quelle maniglie sono, per quanto buone, ancora un’illusione. E per incontrare la verità a un certo punto bisogna invece mollare la presa e lasciarsi andare.

Tutto il viaggio, anzi, mi sembra ora essere stato una preparazione all’immersione in questo silenzio. Se c’è una cosa che ho notato, infatti, dopo 3 anni che non facevo questi miei giri un po’ randagi, è che tutto quello che abbiamo attraversato ultimamente a livello globale ha in qualche modo ispessito la guaina della separazione tra di noi e il senso d’allerta per tutto ciò che non sentiamo protettivo e sicuro. In me a questo si aggiunge una tensione individuale, nata da qualche spavento che ha radici lontane. Così, durante tutto il viaggio questa volta ci ho messo un po’ più di tempo prima di a smettere di proteggermi, ad esempio da una stanza non precisamente confortevole. E, passando a piani più ampi, meditando, ho sentito spesso di essere trattenuta di qua dall’immersione totale da queste ancore che non voglio mollare. È una specie di paura di perdere le cose o le persone care e che ci danno confini certi, in cui ci possiamo definire.

Ma è un po’ come succede nei templi, e qui ne ho visitati veramente tanti: ci sono tutte queste varianti del divino, ciascuna con una specializzazione e un nome particolare, e poi tante cerimonie e atti devozionali diversi, che uno che viene dal nostro mondo più razionale sarebbe tentato di chiedersi il perché, a che cosa serva tutto questo apparato di immagini e fuochi e preghiere continue. In realtà tutte queste rappresentazioni ti aiutano a fare l’esperienza tangibile di un’energia che è dentro di te, ma che è fino a un certo punto è più facile incontrare se la rendi visibile fuori di te. Fino a un certo punto, però. Poi bisogna lasciar andare anche questo appiglio. Anche tutte queste forme. E di là c’è ancora il silenzio perfetto, un vuoto pienissimo, non più confinabile e definibile.

Oggi, quando ho affrontato il trekking che porta alla grotta del grande Babaji – ed è interessante che ora neppure la macchina ci possa più aiutare -, ho sentito che lui per me rappresenta proprio questo salto nell’infinito. Rappresenta la domanda: a che punto sei? Quante cose sei disposta a lasciar andare per venire davvero qui? Dovrei raccontare allora che, rispetto a tre anni fa, questa volta è stato un po’ più faticoso raggiungere prima la cima della montagna, dove si dice siano stati in esilio i Pandava, protagonisti del Mahabharata, e poi la sua grotta. Ma ho resistito dal giudicarmi, c’era uno spazio nuovo, infatti, senza più fretta. Così le benedizioni sono arrivate più tardi, mentre allungavo il mio corpo con la pratica della sera e meditavo, ho sentito che forse ancora non sono del tutto pronta a lasciar andare le maniglie del mondo, ma le parti di me che si sono ricongiunte al centro, a al luogo in cui finisce l’io e inizia l’infinito, sanno che in quel lasciar andare non si perde nessuno e nulla, perché questo silenzio è in realtà pienissimo, e in questa pienezza ci siamo tutti.

Ora sto rientrando a Rishikesh, il tour è stato un’opportunità di crescita, al solito, non dove mi aspettavo, ma dove è giusto che ciò avvenisse. Ci sono state benedizioni e momenti di tapasya, la disciplina a cui si sottoponevano i ricercatori per poi espandere il loro potere, d’altro canto non può che avvenire così ogni crescita: lasciandosi lavorare, a tratti anche fino al limite del sopportabile, per spostare la propria consapevolezza oltre il limite di comfort.

 

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