Prima ero seduta in cima a un prato, di fronte alla vastità. Mi sono tenuta tutta insieme, le braccia intorno alle ginocchia; ferma, finché tutti i pensieri, che erano volati via da me in questi giorni, sono rientrati. Poi, quando ho ricominciato a consistere, a percepire la pienezza che è l’origine di ognuno, ho potuto anche aprirmi, offrirmi allo spazio che il vento infilava da tutte le porte del mio essere. Così, ho pensato, dovrebbe essere anche nella vita.
Essendo nata in una corona di montagne, più aspre e giovani dei colli che mi circondano ora, per me da subito la natura è stata la lingua della sacralità, un modo per accedere al mistero, ma anche per decifrarlo in me. Il sacro, cioè, non è mai stato qualcosa che si potesse chiudere dentro un recinto, ma ha da subito avuto specchio nella sconfinatezza. Non era cioè un recludersi, ma un uscire di casa, lasciando dietro quello che faceva male. O semplicemente mescolandolo agli altri profumi che scorrono nel tutto, ma che non si fermano, non ristagnano, e così diventano parte di un processo regolato da leggi più grandi.
Così, quando non comprendo qualcosa degli eventi che arrivano tra le dita, è più facile che le risposte mi giungano in mezzo ai fili verdi dell’erba fresca, che ripassandoli ossessivamente nella mente. Resto esposta alla natura, finché divento natura io stessa e offro le mie domande in un disegno più alto. Questa è stata anche la mia educazione sentimentale e amorosa in senso lato: farmi antro, accogliere l’altro fino a sentire il suo sentire e così dargli spazio, disinfiammarlo e curarlo in me. Mi è sempre sembrato di essere un luogo più adatto ad accogliere le prove, ho avuto anche un po’ la supponenza di credere di poterle risparmiare agli altri, a me vicini.
Non c’è niente che ricarichi il cuore più di un gesto d’amore: ama, e sarai all’altezza d’essere amato. Svuotati di te, e comparirà l’amore. Queste sono verità mistiche che richiedono esercizio continuo e pratica. E quando hai davvero accesso a quello sguardo, ti accorgi che il mondo è davvero un altro mondo. Che il mondo dell’altro lo è sempre, e che solo facendoti da parte lo puoi davvero com-prendere, cioè fargli spazio in te, dargli accoglienza, e così sostenerlo.
Ogni volta che sono crollata nei piani più bassi in un incontro è questa scalata che un po’ alla volta ho sempre cercato di riguadagnare, fino a volere il bene più vero delle persone a cui volevo bene. Senza pensare più che le imperfezioni e i distacchi da ciò che attendevo fossero armi puntate contro di me.
Oggi però devo aggiungere una nuova comprensione di questo bene. Non puoi accogliere nessuno se non hai accolto te. Non puoi gettarti in mare a recuperare un naufrago, se non ti sei prima assicurato di non annegare. Non c’è bene che non parta dal tuo bene e dall’aver messo in salvo per primo te stesso. E non è egoismo: è l’unica mano tesa che possa reggere. La natura è il sacro, noi siamo i lavori in corso di questa sacralità. E questo richiede di essere colonna, prima di essere stanza che accoglie. Altrimenti la nostra luce si disperde, esce da noi e non è più d’aiuto né a noi, né a nessuno.
Così, oggi sono rimasta seduta finché il mio centro era di nuovo forte, di nuovo l’albero maestro a cui sostenere la mia vita. A quel punto sono ridiscesa, a un nuovo bene.