Tutto d’un colpo è ritornato il caldo. Un caldo precoce, di maggio, e io sono ancora nella casetta di legno davanti al Subasio, il mio avamposto sul paradiso. E anche se a questa altezza dei colli spesso la sera l’aria rinfresca, mi piace dormire con la finestra aperta dietro la testa, guancia a guancia con la natura, ora con il profumo delle ginestre. Mi infilo sotto una coperta pesante fino al naso e mi lascio cullare dal canto dei grilli.
Ma l’altra sera all’improvviso la sensazione di freschezza è diventata un pulsante della memoria. È ritornato a galla quel giorno di fine agosto, dopo tanti temporali, in cui ero rientrata a casa dall’ospedale. Avevo avuto così poco respiro le ultime settimane che, nonostante la temperatura fosse piuttosto bassa, ho spalancato la finestra e mi sono stesa, stupita che la vita fosse stata lì tutto quel tempo in cui io l’avevo quasi persa.
Dietro di me c’era una giornata di felicità, di attesa, di resistenza. Al mattino, dopo i controlli di routine, i medici, barricati in visiere plastificate e camici di nylon, avevano fatto capannello in corridoio e poi erano rientrati nella mia camera, un piccolo rettangolo che si affacciava su due porte, senza finestre verso l’esterno. Mi dimettevano.
Un’infermiera ha staccato le macchine, mi ha tolto l’ossigeno e ha scherzato un po’ con me, partecipando all’atmosfera di festa che non riuscivo a contenere. Ho preparato la piccola valigia in cui avevo infilato un po’ a caso le mie cose il giorno in cui un’ambulanza mi aveva portato via dalla casetta molto di fretta, con tante emozioni, e mi sono sdraiata ad attendere il mio turno per fare il viaggio di ritorno. L’attesa mi è sembrata lunghissima, avevo astinenza di cielo.
Finalmente mi hanno chiamato, mi aspettava una nuova ambulanza. Pioveva, Perugia era arrabbiata di traffico e io, fuori dalla protezione della mia stanzetta, mi rendevo conto di essere molto più fragile di quel che credessi. Un infermiere se n’è accorto e mi ha consigliato di attaccare per un po’ le cannule con l’ossigeno. La strada di casa mi sembrava più dissestata di sempre, volevo quasi scusarmi, avevo paura che mi riportassero in ospedale.
Invece i miei trasportatori hanno concluso fino in fondo il loro mandato: hanno deposto la mia valigia sull’uscio e mi hanno salutato. La discesa del sentiero che porta a casa per me è stata un’impresa: quell’aria vera tutta insieme era troppo dopo averla cercata in tante notti in bilico. Dietro la porta c’era ancora la scena di quello che ero stata prima del ricovero. Le borse con le medicine con cui speravo di guarire presto, la frutta che chiedevo a tutti di portarmi per bisogno di freschezza, che ora era molto matura.
Come un automa, ho iniziato a mettere un gesto dietro l’altro e a ripulire quella sensazione di malattia di cui sembrava impregnata ogni cosa. Ho tirato via le lenzuola e ho fatto tre diversi mucchi di vestiti divisi per colore, per tre lavatrici. Ho svuotato il frigo delle cose tristi, riposto le medicine, che ora non avrei più usato, sopra uno scaffale nascosto da una tenda. Ho iniziato a ripulire ogni singolo angolo della casa e a profumarlo con gli olii essenziali che avevo richiesto di avere nella prima spesa di emergenza.
Dopo qualche ora avevo costruito il mio nido di guarigione. Il saturimetro diceva che avevo anche completamente finito il fiato: ho spalancato la finestra e mi sono stesa sul letto. Ma così il respiro non veniva. Allora ho sollevato il capo con qualche cuscino, ho stretto come un teddy bear un cuscino di spezie che mi aveva fatto arrivare una cara amica, e le lacrime hanno iniziato ad uscirmi dagli occhi. Fuori c’erano i grilli, c’era il vento della sera che portava il profumo dell’erba, i gatti che camminavano sul tetto, forse felici di sentirmi, e io non sapevo più dove avessi trovato le forze per ritornare a riva.
L’altra sera la memoria è ritornata proprio su questo istante di commozione, e di nuovo le lacrime sono scese sulle guance. C’erano gratitudine e tenerezza. E anche la consapevolezza che ci sono fotogrammi su cui gira tutta la nostra storia e con cui dovremo fare amicizia poiché verranno con noi in tutti i giorni a venire. Ha tempi profondi una vera guarigione.
So di non essere stata io, non solo, a fare questo cammino di guarigione: sono scesi tutti gli Dei e gli angeli a tenermi la mano, a dirmi che ce la potevo fare. E so che ogni volta che qualche cosa piccola vorrà accostarsi a me, devo ricordarmi di questa cosa grande. Che posso lasciar andare tante altre sofferenze a cui mi sono a lungo inutilmente impigliata: ma a questa me sopravvissuta devo memoria e rispetto. Ed è abbastanza per far valere ora e per sempre il mio vero bene.