Oggi un amico mi ha raccontato del padre che invecchia, come capita ai padri, e che inizia a pensare a come sarà la morte. E così ho iniziato a pensarci anche io. E mi sono chiesta perché io in fondo non ne abbia mai avuto un vero timore, neppure qualche mese fa, quando mi si era seduta accanto sul letto d’ospedale. Poi pensieri e parole, come capita in questo caso a chi scrive, hanno iniziato a insegnarmi nuove cose di me.
E mi sono accorta che in realtà io non mi sono mai sentita del tutto incarnata, una parte di me non è mai davvero venuta qui, e sicuramente non era fatta per questo mondo, e mi è capitato molte volte di avere più paura di vivere che di morire. Fin da giovanissima, mi sono trovata spesso a chiedermi quanto mancasse ancora, non con disperazione, ma con un desiderio di riposo, una ricerca di quiete da un rumore assordante che è il prezzo dell’Uno divenuto molti. Ecco, è rimasto in me un ricordo di silenzio perfetto, che poi ho continuato a cercare in molti luoghi, e incontrato a volte solo in questi colli, dentro la mia capanna, che è per me la cosa più vicina ai ricordi di Cielo.
Naturalmente l’assenza di paura nasce anche da un profondo senso spirituale, per cui con questa parte non incarnata so benissimo che non si muore, che siamo pezzetti di eternità rivestiti di un corpo. E che questo corpo è appena un veicolo per riconquistarci la nostra natura immortale. Nel frattempo, non solo bisogna vivere, ma bisogna anche farlo al meglio: è un’opportunità che le anime attendono molto per liberarsi dal vincolo con la materia. Quindi bisogna usare ogni vita per procurarsi più libertà possibile.
No, credimi – rassicuravo il mio amico – non è che a me non piaccia la vita: io la amo tantissimo, e ogni giorno ho almeno un momento intenso di meraviglia. Ma della vita mi piace il suo contenere l’eterno dietro il velo mortale, e il suo condurci tra questi veli perché impariamo a scoprirli. Di questa scuola di conoscenza sono una grande appassionata, ma la vita in sé non mi sarebbe mai bastata. E ci ho provato, ma ogni strada arrivava a un muro, e all’idea che non fosse un cibo che potesse saziarmi. Di questo sì mi sono disperata e non so se sarei rimasta qui se non avessi assunto ad un certo punto una prospettiva d’anima, che trovava senso e necessità anche al dolore.
Finché non ho dato cittadinanza a questa mia parte celeste, sono stata una disadattata. Non avevo gli attrezzi per stare nel mondo, cercavo solo pezzi di eternità, senza sapere quello che stavo cercando. Ma quando la ricerca è così intensa, prima o poi arriva qualcuno a farti l’occhiolino da una nuvola, a farti capire che è tutto uno scherzo, a dirti di non prenderla troppo sul serio, che sono tutte solo prove generali di una ben più alta felicità.
Anche adesso, sai – finivo di parlare all’amico -, dopo tutti questi mesi complessi, che sembrano non finire mai di portare prove, quando mi siedo e chiudo gli occhi, la luce si accende su un’altra verità, e da lì sento che non c’è davvero nulla che conti che il tempo e questa epoca crudele possano portarmi via, e che nella nudità di certezze in cui mi hanno lasciato, mi hanno solo tolto rumore, veli, mi hanno fatta più vicina al Cielo, al suo silenzio perfetto.