La “normalità”

“Poi, un po’ alla volta ritornerai alla normalità”. Lo diceva la dottoressa ieri, auscultandomi i polmoni e indicandomi dove il respiro ancora rantola e non scorre, eppure piena di soddisfazione per i miglioramenti. E queste parole sono rimaste anche quando ha salutato ed è scomparsa dietro alla porta. Cosa vuol dire “normalità”? Mi sono chiesta, e mi sono sorpresa a essere quasi affezionata a questa misura di infinito, in cui posso guardare dietro e oltre il tempo, come in tutte le esperienze grandi.

Ci sono gesti “normali” che non riesco più a fare. Non riesco, ad esempio, a scrivere nessun impegno sull’agenda: piuttosto appunto piccoli promemoria in foglietti sul tavolo, ma ho il terrore di vedermi di nuovo scivolare fuori dalla consapevolezza, completamente in balia della giostra dei giorni che diventano settimane e mesi, senza essere presente a me stessa. E non riesco ad aderire al balletto della vita: propagande, esibizioni, scontri, per il gusto dello scontro in sé, o prediche.

Non voglio mettere confini e fare a pezzi quello che con tanta fatica in questi lunghissimi giorni e notti si è unito in me. E non voglio correre, non voglio ansie per cose che non siano realmente vitali, e neppure essere spinta a produrre. Vorrei soltanto Essere, ecco, è questo in fondo. E da questo profondo stato di Essere attendere quello che da sé diventa qualche cosa. Proprio come la natura, come i crocus che naturalmente ora sbocciano nei prati. Funziono molto meglio così, e solo da questa superficie calma vengono a galla le parole, spinte da qualche verità pronta a brillare.

Le mie giornate ora hanno un equilibrio cristallino. C’è ascolto, c’è il fare, c’è il riposare, c’è il prendermi cura di me. Il lato del giorno che preferisco è quello del secondo pomeriggio, quando faccio una lunga e lenta pratica di yoga sotto la luce d’oro di settembre. E appena il corpo ha raccolto al centro i fili che si impigliavano al mondo, mi siedo, rivolta al grande monte e all’infinito, e mi svuoto completamente dei pensieri. Ho una preghiera speciale per entrare in questa sconfinatezza. Non è una preghiera per chiedere, è una preghiera per ringraziare.

Mi sgorgano dal cuore tanti piccoli e grandi grazie. Hanno radici nella meraviglia di non dare più nulla per scontato. Il morso a una mela fresca, il profumo del rosmarino che si dona al mio cucinare, la pelle vellutata di una pesca, e anche il piegarsi dell’erba con il vento della sera. Ogni cosa ha la dimensione del miracolo nei miei occhi nuovi. E quando arrivano dei singhiozzi di respiro, perché ancora arrivano, ancora ci sono inceppi, li tratto come sospiri, in cui in me si fa un angolo di spazio per tutta questa bellezza che ora riesco a vedere.

Poi porto a passeggio i miei polmoni. Oggi ho camminato un’ora e un quarto, tra le pieghe del sole che disegna spicchi di luce sui colli. Camminando riesco a prendere il ritmo del vento, e allora non sento più l’affanno, ma tutto diventa naturale. Sono parte del paesaggio e lo attraverso come fossi attesa da ogni albero e da ogni cespuglio di more. Ritorno quando il profilo rosso del tramonto è già basso e si infila tra le foglie scure, come incisioni a china.

E i fiotti d’amore che mi sorprendono all’improvviso. Per tutto, per tutti. So che finirà, so che sarò rapita di nuovo dalla furia: ma oggi lo volevo scrivere, che sono molto certa che è così che dovrebbe essere la vita.

 

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