C’è stato un momento questo pomeriggio in cui mi pare di avere toccato un centro molto importante. Il luogo è sempre il mio lettuccio d’ospedale, tra le pareti gialle, le luci artificiali, i passi di infermieri e medici bardati dentro tuniche spaziali ai due corridoi sui lati. Sta diventando una sorta di pensatoio questo trono bianco assiso nel vuoto della stanza sospesa dalle stagioni e dalle coordinate. Anzi, il contrario: sta diventando un luogo in cui si fermano i pensieri, e allora ha modo di brillare qualche verità.
Io sto decisamente meglio, e inizio a sognare di nuovo l’erba del prato sotto i piedi scalzi. Anche le mie giornate sono più vive, e per lunghi tratti mi stacco dall’ossigeno. Lo riattacco soprattutto per un partito preso di morbidezza che ho deciso con me stessa. E ogni mattino posso riprendere i miei esercizi di ricarica energetica, il pomeriggio, poi, c’è un momento in cui, esattamente così come sono qui, con il mio pigiama a fiori rossi e rosa, faccio una lenta e profonda sadhana di yoga, sul pavimento, come si può. E nel corpo disinfiammato dai farmaci diventa ancora più trasparente il flusso di prana e il suo bene, il viaggio nel profondo.
Completo sempre con pranayama e meditazione semplici, poiché a ogni movimento improvviso scatta la tosse. Da due giorni approfitto proprio di questa immobilità forzata per entrare a poco a poco in quello spazio universale in cui ho ritrovato la vita, e lì espandere il respiro. Ed è stato proprio qui che ho avuto la piccola nuova rivelazione. Mentre mi svuotavo, stavo al centro e vedevo questa e tutte le vite alla periferie di uno spazio di verità, ho cercato di diventare veramente pura osservatrice del respiro, come di un’espansione che si apriva nello spazio in cui io non ero più solo io, ma ero già colli, cielo, vento, e persino i colori dell’autunno che arriverà.
Mi sono accorta che per me questo è un esercizio difficilissimo. Lo faccio da tantissimi anni, ma non ero mai riuscita a diventare così tanto spettatrice da accorgermi di una radice profonda di tutto quello che ha condizionato la mia vita. Il respiro in realtà non ha bisogno di noi, se tu affidi completamente il tuo corpo alle forze della natura, da solo espande il diaframma e fa nascere l’inspirazione, da solo rilascia l’onda e nasce così l’espirazione. Ecco: quell’istante in cui questo mantice dovrebbe partire e fare luce e spazio nel nostro infinito interiore, a me prende come una paura che non accada. Il timore che l’universo che fa respirare ogni particella del creato, si dimentichi di me e mi lasci soffocare.
Mi viene un vuoto d’aria, una paura di restare senza respiro, e questo dice quanto il karma di questa malattia mi abbia costretto a guardare in faccia questo timore. Allora, quel che ho sempre fatto finora è sospendere la resa, la fiducia e fare io un atto volontario: espando il diaframma per assicurarmi l’aria. Non mi affido cioè alla Natura. Faccio tutto da sola. Non mi metto in altre mani. Non mi lascio aiutare, amare, sostenere. Da questo atto originario del respiro il controllo si è infatti espresso in ogni lato della mia vita.
Allora ritorno all’esercizio, e ci provo e riprovo a non provare, a non forzare, a non esserci, ad attendere la Grazia. E anche nell’istante in cui arriva quella piccola paura, quel punto di volo in cui mi spavento, a non fare nulla. A volte vince la nuova apertura che sto cercando di far germogliare, a volte ancora ritorna la sfiducia e allora do la mia spinta. Ma essere arrivata a questa radice così naturale che lega la mia incarnazione al tema principale in cui dovrò guarire, mi ha dato nuovi sensi della bellezza del cammino. Non importa se in qualche punto dei cerchi dell’eternità questo si debba a una ferita o a un abbandono, quelle sono le identificazioni in cui sono precipitata. La cosa veramente importante è che ora è una cosa pratica che ho conosciuto e che posso un po’ alla volta prendere per mano, fino a rassicurarla. Farla diventare amore e libertà. Darle ali.
E così ora so anche dove sta la guarigione, so il perché della frattura: affinché questa esperienza io possa attraversarla ora completamente, per non avere la dannazione di ripeterla mai più.
Le luci si spengono, devo provare a dormire. Tra le pareti gialle, i passi lungo i corridoi, i respiri affannosi di altri camminatori come me, in questa bolla del mondo in cui si prova a rinascere.