Ieri, mentre mi allontanavo dal Friuli verso Milano, mi sono ritrovata la solita sensazione mista tra malinconia e resistenza. Se non avessi fatto attenzione a dove stavano precipitando i pensieri, sarei caduta nelle ipotesi più basse su di me per i nuovi giorni in città, prima di un cambiamento ancora più grande che sto per iniziare. Non era per la pressione che premeva dal cielo e che annunciava la neve: è che è difficile rompere le abitudini, toglierci dalle cose note, oppure, chimicamente: creare nel nostro cervello delle catene neuronali nuove.
E ciò non accade solo con questi piccoli momenti di comfort: capita con tutti gli abiti di pensiero che in un certo momento della nostra vita (spiritualmente: delle nostre vite) abbiamo preso per veri e li abbiamo stampati dentro di noi. In questi mesi, facendo consulti di soul coaching, ho potuto toccare con mano – e più volte sentire una forte compassione ed empatia – come ognuno di noi sia qui per decifrare uno schema di dolore che, se non superato, finisce per condizionare tutta la sua vita.
La cosa culturalmente – e terapeuticamente – più bloccante è che consideriamo questo nostro partire con una situazione di sfavore – spessissimo lo schema ha la sua prima manifestazione in famiglia, già all’atto della nostra nascita – come una sfortuna, cioè lo raffrontiamo con una situazione standard, attesa. Dal punto di vista spirituale le cose stanno in modo completamente diverso: questo dolore è solo uno specchio che già dall’inizio ci appare per informarci su che cosa dovremo lavorare in questa vita, cioè cosa siamo venuti a fare qui, perché una volta liberato questo blocco: proprio da questa parte nostra viva passerà anche la luce più grande che c’è in noi.
Dunque si inizia da un cambio fondamentale nei nomi: non è una sfortuna, è un’opportunità. E in gioco c’è non il nostro diventare ‘normali’, ma il nostro diventare liberi, non più condizionati come dei burattini da pensieri che filtrano la nostra visione delle cose. Se non supereremo subito questi blocchi, la vita ci farà ritornare ancora e ancora a vederci al solito specchio, finché saremo in grado di comprendere, accogliere, trascendere.
Una persona mi ha raccontato, ad esempio, di essere stata concepita nei giorni della morte della nonna: tutta l’attenzione fu presa da questo lutto e per mesi i genitori restarono indifferenti al nascituro, la madre crollò in uno stato quasi depressivo. Alla nascita, continuò a sentirsi non visto, non accolto: aveva preso per vero quello che aveva appreso dall’ambiente. E ancora oggi fatica a pensare alla propria vita senza dei muri di cinta che lo separino dal mondo: questo ha creato insicurezze sul lavoro, nelle relazioni, nell’amore per se stesso. Dal punto di vista spirituale, questo schema di pensiero era già presente nei neuroni del nuovo nato (un nodo karmico, tecnicamente): e il suo affaccio sul mondo è stato solo il primo messaggio sull’ostacolo che questa vita gli avrebbe dato la possibilità di superare.
Già cambiando, dunque, il linguaggio, la nostra prospettiva non volge più il capo al suolo, ma diventa più propositiva: ogni volta che siamo scelti per fare un miglioramento, è con gratitudine che dovremmo prenderci cura della nostra vita. Sapendo che questo è l’atto di pace e di amore più grande che ciascuno può fare anche per il mondo: accendere la luce in sé, affinché anche altri la vedano e si invoglino di bene.