A lungo, senza quasi saperlo, ho iniziato a farlo con me: a provare a stare ferma quando qualche emozione pesante mi creava un senso di disagio, e magicamente dopo qualche giorno si espandeva, e iniziava a parlarmi. A rivelarmi perché era venuta a trovarmi. Pareva, insomma, che il disagio e la rivelazione abitassero nello stesso spazio. Che il luogo in cui passava il più acuto dolore, fosse lo stesso in cui poi poteva aprirsi una porta alla gioia più grande.
Lo stesso ho poi iniziato ad osservarlo quando qualcuno mi raccontava una storia o mi parlava di sé, e sono stati in tantissimi a raggiungermi dopo la pubblicazione dei libri: era come se ci fosse uno schema che bloccava il passaggio alla luce, ma una volta riconosciuto e liberato, lo splendore era ancora più grande e lo si trovava già dentro a quello che prima pareva opaco. Yogicamente si direbbe che il nostro karma e il nostro dharma sono in strettissima relazione, e i pesi del passato, una volta sciolti, aprono la strada alla nostra missione. In termini più semplici: il dolore è una guida per conoscere qualche cosa di noi.
Iniziando a fare coaching, queste esperienze sono divenute una pratica che amo fare: ovvero porre domande che portino al cuore dell’intensità di un’emozione, finché non si apre e non libera il suo segreto. Quindi questo è quello che mi piace pensare di poter fare per aiutare le persone: trovare domande giuste che stimolino risposte vere. Ma queste risposte non sono io a trovarle: io posso soltanto fare da guida in una mappa che ha degli universali in tutti noi, poi è il ricercatore stesso che si sorprende a sapere già quello che pensava di dovermi chiedere. Che le risposte ci sono sempre tutte, dentro di sé.
Hai mai fatto questa esperienza?