Mi chiedevo da un po’ dove fosse finita tutta la luce di questi giorni, dove la fratellanza con gli alberi, lo stupore delle lucciole, il profumo delle ginestre, le albe clamorose sul profilo dei colli. Dove i tramonti che sigillano d’oro ogni giornata. Come mai non fossero ancora divenuti parole, poesia, rivelazione.
E oggi, mentre ero seduta sul colmo di un grande prato, con il vento che piegava i fiori e portava in giro il profumo dell’erba appena tagliata, ho improvvisamente sentito la presenza viva di questi doni, tanto più incredibili dopo i mesi che ci sono stati: sono tutti divenuti me, hanno ricaricato un luogo di silenzio che comunica direttamente con il creato, senza bisogno di essere pronunciato.
Più tardi, allo specchio, ho visto albe e tramonti dentro il brillare degli occhi, e una primavera lungamente attesa fiorita nel sorriso. Sulla fronte sono impresse le notti di luna, i pensieri hanno il profumo del grano poco prima di farsi maturo. Nelle mani c’è il soffice dei mattini impregnato di rugiada. E sulla pelle la luce che l’aria mescola con il giallo delle ginestre.
Dentro il petto sbocciano incessanti le rose di macchia, e al centro del corpo scorre un raggio di sole. Ci sono arcobaleni appoggiati alle palpebre, e nuvole veloci d’estate impigliate fra i capelli. L’azzurro terso del cielo è dentro la gola, e il canto dei grilli forma anelli alle dita. Dentro le gambe è entrata la forza della grande quercia, e un po’ del viola dei fiordalisi riposa dietro le ginocchia.
Qui, allora, non c’è nulla da raccontare: qui si può solo essere. Far respirare in sé un po’ del respiro del mondo. Chiudere gli occhi e restituire, nel silenzio, al creatore tutto il creato.