Quanti passi bisogna fare lontano da sé, lontano dalle idee e dai confini con cui abbiamo creato un’illusione che si chiama “Io” prima di donarsi completamente alla sconfinatezza della vita! E quante volte, quando pensi di aver raggiunto il traguardo della resa, devi invece ricrederti e accorgerti che stai ancora tenendo tu le redini, che stai controllando persino il modo in cui ti lasci andare. Eppure lo sai: se è questo che ora devi fare, l’universo si muoverà e ti metterà al muro, e spingerà finché non avrai più altra scelta: e allora dovrai davvero abbandonarti, farti portare. E’ stato così che mi sono completamente persa, ovvero che sono arrivata esattamente ad essere completamente dove sono in questo momento.
Sono dentro il caldo di questa domenica mattina, in una camera, in un piccolo villaggio di mare del distretto di Kannur, in Kerala. Sono nelle storie di una famiglia che mi ha aperto la porta di casa, nelle parole di una lingua che non comprendo e che si parla intorno a me, e dove ci sono cose che mi accadono. Sono stata anche la figura stesa in un letto di un ospedale di questo angolo del mondo che è ora quello in cui appoggio i passi delle mie giornate. Sono stata sotto le dita sottili delle infermiere che spingevano piano l’ago e l’ovatta sulla mia pelle, e anche in una notte che mi copriva con un manto di canti, di tepore umido e di piccoli insetti che potevo portare nel sonno solo smettendo di resistere e accogliendo semplicemente quello che c’era di vero in ogni momento vivo.
Così ho scoperto questo: fuori dai nostri programmi, dai nostri bordi rigidi, abbiamo anime molto flessibili a prendere tutte le forme delle esperienze che ci attendono. Avevo avuto altre occasioni per arrendermi in questo viaggio, e credevo di averlo fatto e non era ancora vero. E’ servito un piccolo incidente, un gioco che mi ha lasciato dei segni su una gamba da parte di uno dei tanti cani che si aggirano in queste spiagge, perché io amo i cani e non ho paura. L’idea improvvisa, poi, di far vedere questi segni che si gonfiavano a un dottore, per trovarmi immediatamente stesa su una brandina del pronto soccorso, in attesa del responso alle reazioni dell’antirabbica, come misura di sicurezza raccomandata: dall’altra parte il rischio di morire. E per trovarmi in mezzo a tanti corpi feriti, lenzuola lise, macchiate e a un bagno di umanità e di medici e infermieri che si muovevano per non far cadere nessuno troppo nel buio.
Ho visto in ore calde e lente in quella stanza, come amore e paura siano uguali in tutto il mondo, e come l’uno e l’altra siano cose che uniscono e che rendono evidente quanto poco sia quella forma di noi che tanto difendiamo. E questo a volte si vede più chiaro da un luogo scuro. Si riesce infatti così a comprendere la resistenza che opponiamo al flusso della natura, alla fiducia nei suoi piani. Perché lo so: anche questo incidente è perfetto e dovrò presto ringraziarlo. Ringraziare come ho dovuto farmi corpo passivo, pronto a obbedire fino al più piccolo gesto, senza più opinare, senza più analizzare. Come ho dovuto crescere la fiducia e mettermi in altre mani, e come dovrò ancora farlo. Perché dalla casa di un caro amico il viaggio procederà in luoghi divini, ma dovrà essere con tappe in tanti altri ospedali per completare il trattamento. E dovrò ancora farmi guidare, tacere in una lingua che non conosco, accettare di perdermi per trovarmi.
Finché avrò completamente detto di sì a quello che vuole essere. Finché avrò imparato ad ascoltare la vita in me, ad amarmi. Ad amare l’amore e la vita in tutti, in ogni momento com’è.