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La città ferita e piena di cuore
Cap. I – La felicità è una cosa relativa (o lo sono le profondità da cui la guardiamo)

Almeno non russano – Giovedì mattina, quando sono arrivata all’aeroporto di Malpensa ero un po’ seccata. Perché avevo scelto un aereo tanto mattiniero, e  mi ero così costretta ai  sogni allarmati che impone una sveglia che ti spezzerà il risveglio? All’aeroporto scopro che il volo è in ritardo, e che forse a Monaco avrei perso il cambio per Sarajevo: la mia felicità ha subito cambiato freccia. Non era più il risveglio il problema, ma la speranza di arrivare per tempo per la connessione.

Invece non prendo il secondo volo: vengo ri-prenotata su un volo da Vienna alla fine della giornata, arrivo previsto a Sarajevo per la prima notte. Cambio ancora i connotati alla mia felicità e alla concezione del tempo: se lascio il tempo lunghissimo che ho davanti solo al futuro non passerà mai, devo per forza farne qualcosa, abitarlo, farlo diventare tempo presente e di presenza. Inizio finalmente ad essere nel luogo in cui sono, a farne un momento della mia vita, non un transito verso qualcosa a venire. Lavoro, respiro, apro le finestre dell’osservazione.

Quando poi finalmente sono sul volo Vienna-Sarajevo, ormai abbastanza stanca, l’ultima cosa che mi sarei aspettata era che non potessimo atterrare, “per la nebbia”, annuncia il pilota impennando verso l’alto all’improvviso: e poi le parole che mi arrivano come una forbice al sogno di riposo: “We are going back to Vienna: ritorniamo indietro a Vienna”. Come? E quindi ora cosa faccio? A Vienna, siamo un manipolo di viaggiatori storditi e crediamo di non aver capito bene quando ci dicono che non c’è possibilità di hotel: è festa e non se ne trovano. Restano due alternative: dormire in aeroporto e il mattino ritornare a Monaco per viaggiare su Sarajevo, oppure… oppure c’è un bus che ci aspetta. Un bus? “Sì, si tratta di 12 ore di viaggio, forse 10. O non si sa”.

Non so come a un certo punto, per prima, mi sono vista alzare la mano: “I go for the bus: io prendo il bus“. In realtà nel frattempo era successo anche questo: Avevo ritrovato il mio bagaglio. “Dove sarà in tutto questo caos? avrà seguito questa incredibile geografia di voli? Mi ero chiesta d’un tratto e non riuscivo più a distogliere il pensiero. E quando l’avevo visto apparire sul nastro, ancora unito al tappetino da yoga, avevo avuto chiaro in mente solo questo: non lo lascio più. Ora viene con me. E il bus almeno mi consentiva di sedermi, di averlo vicino, e di arrendermi: ormai il tempo era dilatato in un’altra realtà.

Sul bus mi accorgo che intorno a me non c’è più nessun turista, solo cittadini bosniaci, molti grandi il doppio di me, per lo più uomini, due o tre donne bionde, per lo più tenute al riparo dai mariti, con volti che hanno visto ben di peggio di questo inatteso attraversamento d’Europa. E’ notte e siamo stanchi. Tra loro fanno battute, qualcuno ride, ma istericamente. L’unica cosa che si desidera ora è sedersi, stare in tutto il tempo che avremo davanti ed arrivare. Io scelgo il sedile dietro un ragazzo di cui raggiungo appena il gomito. Mi dice di essere un poliziotto, ha un viso forte e buono, parla inglese e mi mostra la mappa del viaggio che dovremo affrontare. Una linea lunga che scorre con il dito, cambiando tre volte lo schermo del telefono.

Mi metto le cuffiette con della musica calma che mi riunisca a me stessa, mi accorgo che non ho nulla da bere, nessuno ce l’ha; che non abbiamo mangiato da molte ore e non accadrà per molte altre. Ma nessuno si lamenta. Guardo ancora i volti che hanno visto molto di peggio di questo e mi rilasso. La signora bionda che sta dietro di me mi dice che posso abbassare il sedile. Ha gambe lunghe ma in qualche modo dovremmo cercare di dormire. Io ci riesco, dopo due ore, per circa mezz’ora. Mi sveglio e sono le 2.50, “Mancano ancora 8-10 ore”, mi dice il poliziotto che ha incrociato i miei occhi aperti, e mi segna ancora schermate di telefono lungo la linea di tragitto. Intanto la musica è finita dentro le mie orecchie e mi accorgo di una nuova inattesa felicità: nessuno sta russando.

Bus verso Sarajevo

Tolgo le cuffiette inizio ad essere davvero parte di un’umanità.

CAP. 2 – Tappe e umanità

Ogni istante di vita è bellissimo – Il bus si ferma. Dobbiamo scendere, fuori ci sono almeno 5 gradi sotto lo zero, stiamo lasciando la Slovenia per la Croazia. “Here it is not Schengen: siamo fuori Schengen, mi ricorda il poliziotto”. Ci mettiamo in fila davanti a uno sportello militare, qualcuno viene trattenuto a lungo, ci stringiamo dentro i cappotti. Arriva il mio turno: sono italiana, il poliziotto si scusa e mi fa passare. Mi sento ingiustamente privilegiata: tutti gli altri nella fila hanno il mio stesso freddo, fame e voglia di dormire. Dopo dieci minuti siamo di nuovo in fila. Entrata e uscita, e sarà così ogni due o tre ore, ad ogni inizio di sonno, nel Paese unito che era stato diviso da una guerra.

Ormai stiamo diventando tutti amici, ci raccontiamo per quali storie ci siamo trovati ad essere lì. Io rido quando racconto che ho realizzato che dopo 16 ore dacché avevo lasciato il mio letto milanese, passavamo con il bus vicino alla mia casa friulana, e tiro fuori il mazzo di biglietti aerei del giorno prima, ci si potrebbe giocare a carte. Il poliziotto davanti a me replica che lui abita vicino alla frontiera che stiamo passando in quel momento, ma ha la macchina all’aeroporto di Sarajevo (sembrava la soluzione più comoda): dovrà guidare 6 ore appena arriveremo. Ha avuto un bambino da poco, ha la sua foto nel portafogli. Fuori sta iniziando l’alba e un paesaggio di cristalli che rendono aguzzi i rami spogli degli alberi.

Ultima discesa e risalita: anche a me viene messo un timbro e vengono fatte delle domande. Stiamo entrando in Bosnia. Sul bus più o meno tutti iniziamo a smettere di sperare di dormire, c’è impazienza e resa. I colli hanno un aspetto agricolo in stagioni più miti, case rade, molte con i tetti sfondati o completamente appoggiate su un fianco, come monumenti macabri della violenza che le ha attraversate. A volte interi versanti di un colle sono pieni di steli scure o chiare: cimiteri senza foto e senza nomi. Morti aggregati per pure geografie.

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Entrata in Bosnia, dal bus

Il bus ferma e c’è un boato di esultanza generale. A lato c’è un piccolo ristorante aperto, espone prodotti casalinghi, c’è il fuoco acceso. Qualcosa che sa di casa. Io non ho i soldi locali. Una ragazza bionda che è rimasta finora sempre sola, vestita bene,  meglio di quasi tutti, legge i miei pensieri e mi viene vicino: “If you stay with me I can cover your breakfast in case they don’t take your card: posso pagare per te, se non prendono la carta”. Scopro che è gentilissima, che parla piano, che ha pregato anche lei (l’ho fatto anche io), quando il pilota per due volte ha sterzato annunciando di non poter atterrare, buttandoci all’aria.

Non ci diciamo i nomi, forse non ne abbiamo più. Siamo tutti la stessa vita. Era  appena nata quando c’era la guerra, e viveva in Serbia. Si è sposata da poco con un uomo di Sarajevo. Lì ha capito cos’è stato l’assedio: tre anni senza acqua, gas, cibo: tutto lasciato nelle mani della fantasia e nei muscoli resistenti di un popolo forte. E poi aggiunge una cosa che voglio ricordare per sempre: “Sai, oggi le cose sono andate diversamente da come molti di noi pensavano: dovevamo essere già a Sarajevo da tanto. Tutti abbiamo qualcuno che ci aspetta. Ma quello che impari da una guerra è che ogni istante di vita è bellissimo“.

CAP. III La città intensa e piena di cuore

Memorie che cambiano per sempre – Quando arriviamo all’aeroporto di Sarajevo ed è tempo di scendere, non ci salutiamo neppure. Come se la confidenza che c’è stata fosse stata troppa e ora il pudore di un popolo che non può mostrare troppo i sentimenti la rimettesse al suo posto. Anche io mi accorgo che devo riprendere le ragioni per cui ho intrapreso il viaggio: mi sembrano ormai lontanissime, stravolte. Oppure diventate di più. Faccio tutto quello che devo fare, mi ricongiungo con l’autista che da due giorni sta facendo vari tentativi per raccogliermi. Arrivo in albergo, non capisco ancora molto del luogo, ma ne sento gli strati di storia che lo hanno scolpito.

La notte dormo finalmente un sonno profondo che al mattino avrei raccontato agli amici come due sonni: due notti che vengono insieme in una sola. Sono eccitata, felice. Ho srotolato il mio tappeto da yoga, ho respirato la città come sempre dapprima dentro di me. Al mattino ci aspetta un tour in alcuni luoghi caldi di Sarajevo prima degli impegni di lavoro. Fa un freddo umido, i contorni delle cose sono mangiati dalla nebbia. Molti edifici hanno muri rifatti, e senti che tutto quello che accade ora lì fuori non può non essere anche qualcosa che continuamente parla anche di quello che è già accaduto.

“Ci sono tre Sarajevo”, ci dice la guida: “Una piccola Istanbul piena di moschee e bazar che risale alla conquista ottomana, una piccola Vienna elegante e piena di teatri del periodo austroungarico. Una città ancora di aspetto comunista del periodo di Tito”. Noi prendiamo la strada che attraversa quest’ultima e casermoni di abitazioni tutti uguali, in cui ancora si vedono i segni degli spari. Arriviamo nella prima campagna di nuovo vicino all’aeroporto. Qui, nel cortile di una casa privata fu scavato il tunnel che salvò Sarajevo sotto embargo.  Fu scavato con le mani e utensili da casa da circa 50 cittadini per un chilometro e mezzo, per poter portare cibo, armi, per portare a casa i feriti. Per trascorrere tre anni di vita-non vita. Un filmato originale li racconta. Si vede l’odio da vicino, l’amore che serve a tenere duro. Mi accorgo che sto piangendo. E che forse volevo farlo almeno da un giorno intero.

Gli amici di questa città – è per loro che sono qui – hanno un cuore grande e il sospetto sempre pronto a scattare. Mi sono sempre chiesta, durante il tempo dell’amicizia, come le due cose potessero stare insieme: se hai un cuore grande ti fidi, hai fatto dei passi oltre la paura, pensavo. Ma se vieni a Sarajevo allora dovrai ricordare per sempre che l’odio che ha invaso un cuore aperto, che è entrato dove c’era certezza che il male non sarebbe mai potuto entrare, lascia un segno che è difficile da cancellare. E allora hai ancora le vene aperte a far passare l’amore, a farne passare anche di più dove c’è bisogno: ma ogni tanto senti ancora il dolore dei colpi dei proiettili che le hanno squarciate.

Al ristorante oltre il ponte sul fiume, più tardi, il primo compleanno di un bimbo è stato festeggiato sotto a teche piene di armi. Le ore che sono venute dopo non sono più racconto di viaggio: in quelle sono diventata il viaggio stesso. Sono diventata – per un poco – questa città.

 

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