Himalaya 4, Kausani. I momenti in cui ho paura.

Non ho avuto il tempo di chiedermelo, prima di partire, se mi sarei sentita sola. Se in questo girovagare in luoghi assoluti e assolutamente lontani da ogni abitudine, mi sarei persa dentro il vuoto di cose e di voci note a cui tenermi. La solitudine, la non appartenenza a nulla di ciò che vedevo intorno, sono state la musica di fondo di un passato ormai abbastanza lontano, poi è diventata una cosa diversa: un essere solitaria e piena, senza più il senso di mancanza. Anzi, sono diventata sempre più bisognosa di silenzi e di tempi privati, perché poi ci pensa la vita ad essere frastuono e affronto a tutto quello che con pazienza cerco di mettere in ordine ogni giorno.

Però oggi ad un certo punto, all’ennesimo arrivo dopo un viaggio lungo, in mezzo solo al verde, solo a villaggi in cui si chiedono sempre solo le cose di servizio per proseguire, mentre ancora una volta toglievo il necessario dalla valigia, una valigia che intanto si è gonfiata di cose che sono venute via con me in questi giorni e della vita che si è messa addosso ai miei vestiti, per un attimo mi sono chiesta con spavento: cosa ci faccio io qui? E ho pensato quali fossero le vie con cui mi sarei potuta rivedere abbandonata sul mio divano, ma il pensiero ha disegnato una lontananza così complessa che ho dovuto abbandonarlo per non prendere paura.

Allora ho fatto quello che faccio tutti i giorni da quando sono via: ho cercato la calma nei gesti, nei riti che mi radicano in questa vita senza radici. Ho tirato fuori le immagini dei Maestri che mi indicano la strada. Ho acceso un incenso. Ho messo delle gocce di lavanda in queste nuove lenzuola, in un ulteriore letto, in una diversa camera ancora. Ho messo dell’acqua comprata in bottiglia per assicurarmi di non stare male nel bollitore: ho preparato un infuso di erbe. Ho srotolato il tappeto da yoga. Ho apparecchiato i libri sul comodino. Ho acceso una musica che mi riporta in luoghi calmi e felici di me. Ho fatto casa in questo punto dell’universo.

Ho rovesciato la polarità dei pensieri, sorridendo alla facilità con cui alla fine si faccia famiglia con tutto quello che c’è. Ho pensato al giovane autista indiano che si è trovato coinvolto con me in questo sogno, a due persone che erano straniere fino a pochi giorni fa, e che sarebbe sembrato impossibile che dovessero avere dei punti in comune, che all’improvviso si trovano a mettersi negli occhi gli stessi paesaggi, a condividere l’intimità della fame, del caldo e del freddo, della stanchezza e del riposo. Ho pensato ad un paio di amici qui in India, che ogni giorno controllano al telefono che io stia ancora bene, che non mi sia arresa. A mia madre, che ha imparato a scrivere i messaggi: e ne scrive di belli, per non farmi sentire se è preoccupata.

Poi ho guardato il tempo dall’alto, e ho pensato che è proprio quando si sposta un po’ più in là il proprio limite che possono accadere, nello spazio che si è aperto, cose nuove. Che alcune parti di noi possono crescere. E i doni sono già stati così tanti in questo viaggio, e spesso sono seguiti proprio a questi pensieri in cui qualche parte di me cedeva. E allora il pensiero della solitudine ritorna con un volto nuovo: sto facendo una cosa bellissima che richiede coraggio, che mi chiede quanto io sia davvero convinta di voler toccare tutta questa vita più grande per cui da tanto tempo sto preparando il respiro.

Così ritorna la forza, la paura va via. Apro un libro a caso, leggo queste parole: “Per iniziare un viaggio, devi voler avanzare dalla posizione in cui attualmente ti trovi. Finché ti accontenterai delle circostanze presenti, non sarai mai motivato a iniziare. Che cosa ci motiva? Dipende da persona a persona: forse è l’infelicità, o il desiderio di verità, o la ricerca di chi noi veramente siamo. In ogni caso, il desiderio di qualcosa di più è l’impulso che ci sprona in avanti. Tieni a mente cosa ti ha motivato e continua cercarlo finché non hai raggiunto il tuo obiettivo”. (da Un tocco d’amore, Nayaswami Jotish e Devi. Ananda edizioni)

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