Tappa: Rudraprayag – Josimath – Badrinath
Si dice che un vero viaggio spirituale si debba fare da soli: e ora sono davvero sola. Un amico vicino è rimasto per ora lontano, perché ci saremmo influenzati troppo. La casa in cui avevo fatto famiglia è a Rishikesh, e ora anche l’autista con cui sarei dovuta arrivare qui, che era diventato un complice dell’avventura, è rimasto in macchina, dietro una frana e a vari travasi di fiumi, a venti chilometri da Badrinath, dopo avermi aiutato ad arrampicarmi a piedi sui sassi caduti e avermi messo su una Jeep che mi avrebbe portato qui, in uno dei luoghi della terra più vicini al Cielo. Non solo per l’altezza che rarefà l’ossigeno e crea spazi nuovi in cui non riesce ad allargare i suoi tentacoli la mente: ma anche perché qui comprendi che il Cielo non è davvero un’altra cosa da te.
Per arrivare è stato un progressivo entrare dentro le pareti verticali delle montagne, una lotta di altezze che tagliavano a fatte le valli, attraversate da fiumi veloci e pieni d’acqua. La vegetazione è ovunque verdissima, proprio per la copiosità delle piogge che stanno finendo ora la loro stagione. E questo paesaggio immenso qui è là è intervallato dai colori di piccole linee colorate orizzontali, che formano gli agglomerati dei villaggi. E dentro ogni villaggio c’è un tempio con porte aperte al verde e al cielo. Una grande sensazione di respiro, di ricerca di luce verso l’alto: anche per il cuore, per l’energia del corpo, per i pensieri. Mentre in fondo alle valli, dove ci si sporge verso l’acqua che scorre, risalgono i fumi dei vapori dei corpi cremati, affinché l’anima possa volare via più veloce. Karnaprayag, Chamoli, Josimath… tanti nomi in fila di questa geografia assoluta.
Ma Badrinath lo capisci subito che è un’altra cosa: non è solo una delle città più sacre dell’India, dove milioni di pellegrini vengono ad espandere la propria devozione, ma è qualcosa che c’è nell’aria, nella forma delle vette, che nascondono cime di altre vette che ogni tanto si vedono, in una quinta metafisica, per quanto carica di fisicità. È qualcosa che c’è nell’acqua, che spinge con forza non solo nei letti dei fiumi, ma in cascate dalle pareti di roccia: qui lo senti subito che non potresti mai gareggiare con la natura, che devi chiederle il permesso per entrare.
E poi l’umanità di questa terra: qui tutti cercano Dio. E questo paesaggio alto è il luogo in cui si sentono più vicini per trovarlo. Il meraviglioso tempio che troneggia di là del fiume è dedicato a Sri Badrinath, incarnazione di Vishnu, cioè il Dio che conserva la vita, ma anche la linea divina del cuore e dell’amore. Dalle 4.00 del mattino si offrono puje, cerimonie di purificazione, preghiere, canti, invocazioni. Arrivano qui da tutta l’India, alcuni non se ne vanno più e restano semplicemente vicini al Cielo, cioè a Sé, nei vestiti arancioni dei sadhu, i rinuncianti che hanno rinunciato in realtà solo all’illusione.
E io? Cosa ci faccio qui? Non lo so, non ancora. Ad un certo punto sapevo solo che dovevo venire. Per ora ho solo girato con la testa rarefatta, mi sono inginocchiata e ho cercato di fare quello che facevano gli altri. Ho offerto una corona sacra di tulsi, mi sono fatta disegnare l’occhio spirituale dopo la preghiera, ho preso alcune bacche candite di amla, per le vitamine. Ho acceso un incenso nella mia camera affacciata a questo Cielo in terra, e aspetto che mi parli, visto che mi ha chiamato qui, che mi ha voluto sola.