Diario ayurvedico, 1 – esercizi di fiducia

Eccomi in un’India ancora nuova, e anche in nuovi luoghi di me. È stato quest’estate, in un giorno che ricordo con dettagli, che mi è nato dentro un sì pieno, l’assenso per un regalo di cure, di tempo lungo, di silenzio, nel Paese dove l’anima respira e ritorna a casa. Ero stanchissima. Sdraiarmi a riposare non bastava: tra le costole c’era come un rompersi di ghiacci che ferivano i punti molli tra le tensioni su cui stavo resistendo. Serviva quello che non avevo ancora mai fatto: prendermi veramente e profondamente cura di me.

E non è stata vera bontà quella che ho usato finora, mettendo sempre gli altri davanti, ho capito ora con chiarezza. Prima aprendo le sorgenti della compassione nei luoghi più dolenti del mondo, come reporter, poi praticandola come una sterzata per non guardare dritto: aiutare gli altri per dare voce a tutto quello che doleva in me. Come un grido di aiuto, che è diventato una cattiva abitudine fino a sfinirmi. Quindi era tempo di fare il punto, di estirpare queste radici sofferenti, perché solo così possono esserci nuovi passi di un bene fatto meglio.

Sono anzi ora davvero convinta che bisogna arrivare a questo, se si vuole seminare intorno vera bellezza: crescere in sé così tanto amore, così tanta luce, da sprigionarli e liberarli poi naturalmente anche per molti altri. E fino a quel momento il bene più grande che possiamo fare per curare il mondo è quello di migliorare noi stessi, di accendere in noi la luce della consapevolezza e metterla come una lanterna a disposizione di chi riesca a vederla e la stia cercando. Questa è la vera pace che possiamo portare qui tra gli uomini. Il resto del male non è purtroppo nelle nostre mani.

Così sono arrivata qui, in un piccolo ashram nella punta meridionale del Kerala, in un ritiro in mezzo ad una distesa di palme e di erbe mediche che si affaccia da lontano sul Mar Arabico. Il vento diffonde tra le foglie schegge di sole e profumi che riconosci con nuovi sensi. Insieme a pochissime altre persone, riunite qui da tutto il mondo, ciascuna con la propria storia, ci svegliamo alle 5 del mattino per sederci in silenzio 45 minuti davanti ad un antico maestro di yoga. Poi iniziamo la sessione di mantra, di meditazione, di asana, di respirazione, per sdraiarci infine e vedere quello che è venuto fuori dal corpo, e lasciarlo un po’ alla volta andare.

Per pochi minuti scambiamo qualche parola davanti ad una colazione fatta di sapori esotici, preparati con lentezza, prima di ritornare nelle nostre camere ed attendere di essere chiamati per i trattamenti di Ayurveda, l’antica scienza della longevità indiana, già documentata nelle scritture dei Veda 5000 anni fa. Secondo questa tradizione medica, ciascuno viene al mondo con una natura, o ‘dosha’, e ogni volta che la tradiamo, andiamo fuori equilibrio e così si manifesta quella che chiamiamo malattia. Questo non significa non cambiare, non muoversi da uno stato di partenza: ma bisogna farlo seguendo il binario in cui è giusto per ognuno scorrere.

Perciò curarsi significa anche ritrovarsi, capire come ferite passate, di questa e di altre vite, si siano insinuate in noi fino a diventare un’altra versione di noi che ci costringe a comportarci come dei burattini. Ogni malattia è dunque un messaggio d’amore che il nostro corpo ci sta inviando per farci ritrovare la strada. Ed è molto importante fidarsi, tra noi tutti qui, accoglierci nei momenti alti e in quelli bassi, perché verrà fuori prima o poi, se il cammino è sincero, il volto nudo della nostra anima, e anche gli scarti di cui ci stiamo liberando.

Infatti ogni giorno, poco prima che il sole diventi una palla di fuoco che affonda lentamente nel mare, ciascuno ha avuto dal mattino l’occasione di togliersi uno strato, un velo che copre la bellezza di cui tutti siamo fatti dentro. E qualche volta è più facile, qualche volta è più difficile strapparlo di dosso, e succede che dentro l’olio che scende dal corpo, tra i fluidi medicati con cui i terapeuti colpiscono alcuni punti energetici del nostro essere sottile, scendano anche molte lacrime, che non sentiamo neppure più di dover nascondere. Ma non è sempre facile, a volte il buio ha la meglio e prima di essere scoperto ha un ultimo ruggito di forza.

Appena arrivata, dopo una lunga attraversata in aereo, dentro un mondo ancora veloce e che mi pareva così indifferente a tutto quello che sarei venuta ad affrontare, un giovane uomo indiano dalle labbra carnose mi ha accolto e mi ha spiegato le regole dell’ashram, mi ha invitato ad indossare un camicione e mi ha messo sotto le mani dolci di Lakshmi, una piccola donna con delle dita magiche che vedono sotto la pelle. Quindi c’è stato l’incontro con il dottore senior, che ogni sera monitora i nostri progressi. Un signore apparentemente distratto che gode in realtà di grande fama, di cui non si prevedono mai i pensieri e le prescrizioni che nasceranno sotto i baffi brizzolati.

Ma a quel primo incontro ero arrivata molto stanca, con una notte di sonno persa tra i continenti, e avrei voluto che lui capisse anche quello che non dicevo. Che mi prendesse tra le braccia e mi dicesse che comprendeva benissimo quanto avessi lottato e quanto fosse stata dura arrivare a quella lista di cose inceppate del mio corpo che gli stavo enumerando. Che il mio ginocchio si era rotto dentro perché mi ero messa troppi pesi sulle spalle e che lui li avrebbe sollevati. Che dentro la mia pancia continuavano a crescere pezzi non sani di carne perché lì erano andati a morire tutti i pensieri disperati che avevo avuto quando mi avevano rotto il cuore. Invece compilava una cartella e taceva.

Più tardi, davanti alla prima notte di questo viaggio, cercando una quiete che non trovavo sul letto grande, in mezzo a rumori nuovi, ci sono cascata e ho ritirato la fiducia. Ho pensato che non mi avrebbero decodificato e che avrei dovuto dirgli meglio e dirlo io di cosa avevo bisogno. Che forse avevo sbagliato tutto e che stavo sprecando l’unico tempo libero che avevo. Per fortuna dal fondo delle lacrime è venuto a galla il primo specchio in cui guardarmi: ho capito che uno dei problemi da curare qui è proprio questa mia difficoltà a mettermi nelle mani di qualcuno, a farmi aiutare, accettare un supporto. Ed è certo una delle radici di tanta stanchezza. Non importa neppure perché questo cammino teso sia iniziato e chi mi abbia deluso quando era rimasta l’unica strada possibile. Ormai è passato e non posso più andare avanti così. Il mio corpo sta gridando per farmelo capire.

Mi sono ritrovata in ginocchio con la testa tra le mani, a sorridere con il cielo che si era fatto scuro e pieno di stelle, per questa incapacità di lasciarmi andare. Per la presunzione e la cecità che non mi permettono di vedere che ogni persona e ogni situazione non sono altro che le braccia con cui Dio cerca di prendersi cura di me, se glielo permetto, e che non affidarmi ai suoi strumenti significa alla fine non fidarmi di Lui. Vivere anche il sentiero verso il Cielo come una  prova  che devo compiere da sola, ancora a  denti stretti, anziché come un viaggio in cui sono accompagnata ad ogni passo.  A quel punto anche la notte è diventata più leggera e avvolgente e mi ha accolto nel sonno.

E oggi, mentre da una grande ampolla un flusso continuo di latte ed erbe mediche scorreva sulla fronte, ho sentito che tanti pensieri venivano cancellati, come vecchi software di cui ero prigioniera e che limitavano l’ampiezza dello sguardo. Al termine del trattamento ho rimesso il mio camicione e sono entrata nella stanza come una bambina carica di una nuova innocenza. Non la bambina che sono stata, che era sempre gioiosa perché non aveva ancora mai conosciuto il male. Una bambina diversa, che viene dopo quel male. Perché non ha più bisogno di trattenerlo.

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