Quante volte bisogna passare sopra la traccia di un dolore prima che il taglio possa dirsi veramente guarito? Quante volte bisogna morire e rinascere prima che un’esperienza possa dirsi attraversata completamente? Prima di essere di nuovo canali totalmente aperti, di nuovo epidermide permeabile alla vita? Me lo chiedo con sorpresa in questi giorni di fine estate, mentre cammino stringendo in mano alcune memorie che devo esplorare ancora da angoli nuovi, non ancora smussati.
Ci sono stati anni, tanti, in cui mi tenevo fuori di me, in cui affidavo ad altro e ad altri il mio essere felice. Sono mancanze di fiducia nel flusso delle cose, nella propria forza e valore interiori, che prima o poi si pagano cari, e dei quali con le buone o con le cattive dovrai divenire consapevole. Per me fu con le cattive. All’inizio, allora, cercai di tenere in piedi solo quello che mi serviva a respirare, a fare i passi che mi potevano portare ad un rifugio, dove attendere con calma la guarigione.
Con tempi lunghi ho guardato anche dentro le ferite, le ho cucite prima come si poteva, e poi piano piano anche con accoglienza, con la tenerezza che era rimasta, con un po’ d’amore e tanta fretta di andare lontano. Alla fine è accaduto quello che doveva accadere: lo sguardo si è voltato all’interno e lì ho trovato me. Non c’erano più qualcosa o qualcuno padroni della mia felicità.
Ho percorso così molti passi forti e tesi. Ho chiamato tutto questo coraggio e libertà. Quello che mi era sembrato essere la mia debolezza era diventata la mia forza, e non guardavo più a quello che non c’era, non facevo confronti con quello che avevano gli altri, chiedevo solo di compiermi, di compiere il percorso, unico ed originale, che sono venuta a fare qui, ora. Di farlo da sola.
Ho parlato di tutto quello che ho trovato sulla strada con parole di gioia. Sono stata certa di essere felice. Guarita, con occhi ampi per ogni passo del cammino. Pronta a condividere con molti i tesori che incontravo. Tante e tante volte ho incrociato ancora indizi del vecchio dolore, ma ogni volta facevano meno male. Ne parlavo al passato, li trasformavo in luce.
Poi un giorno è arrivato qualcuno: mi ha chiesto di sedersi proprio lì dove mi ero fatta male. Ho risposto spavalda di sì, che non c’era più nulla da temere. Che ero piena di spazio per tutto, per tutti. Invece mi sono accorta presto che non avevo più permesso a nessuno di venire così vicino. Che la mia felicità c’era, ma iniziava di là di quella cicatrice, che c’era una piccola gabbia in cui tenevo protetto il cuore.
La prima reazione, ora, è stata quella di lamentarmi di tante piccole cose insensate per dire che c’erano motivi abbastanza per non lasciar avvicinare. Ma non sono abituata a dire bugie, a dirle a me, e lo sapevo molto bene che ad una ad una queste ragioni sarebbero cadute, o sarebbero rimaste lì, inefficaci a spostare lo stato delle cose. E dietro a queste restava comunque una mancanza di respiro, la voglia di ritornare senza le dita nuove premute sul taglio antico.
Ho imparato che anche il coraggio e la libertà, o quello che avevo chiamato con questo nome, non sono mai un traguardo assoluto, che ogni cosa può diventare una nuovo stato confortevole, da cui non si è più capaci di cambiare. Che la capacità conquistata di stare da sola non era che una nuova prigione. Così la mia forza è diventata di nuovo la mia debolezza.
Quello che mi resta a questo punto, che mi aiuta, che mi offre un appiglio per i passi a venire, è l’attitudine interiore cresciuta in questi anni di grandi salite: sapere che è solo un istante quello in cui si rifiuta lo stato delle cose, poi bisogna rialzare lo sguardo, guardare in faccia ogni cosa, se quello che si vuole percorrere è un cammino vero, che ha per meta la verità.
Quindi, lascio ogni giorno che un dito in più venga appoggiato sul cuore. Che una piccola nuova breccia venga aperta nei muri in cui avevo tenuto una parte di me di qua della vita viva. Accetto il rifiuto che provo, le bugie che vorrebbero uscire, la verità che mi invita a resistere. L’ordine che avevo costruito dentro, per ripartire, è ora di nuovo in subbuglio, in ristrutturazione.
Ed è questo credo che accade in ogni incontro sincero: uno spazio più piccolo che diventa un po’ più grande. Senza diventare lo spazio dell’altro, nuova dipendenza e appoggio esteriore. Riuscire a trovare quella linea perfetta tra i dolori reciproci del passato, i desideri futuri, la strada da fare da soli, aiutandosi l’un l’altro. La linea del Paradiso passa di qui: tra te e me.