Avevo quasi deciso di non andare a vedere la mostra di Frida Kahlo a Milano. Pensavo di averne viste abbastanza, in tutto il mondo. Forse anche un po’ che fosse un capitolo del passato a cui erano seguite molte cose diverse, ulteriori.
Però ieri c’era una giornata azzurra, un cielo alto e intenso. E non mi sono più fermata finché sono arrivata lì. Sono entrata come si va a visitare una sé che è stata, per capire anche cosa avesse significato l’amore sconfinato per questa artista, per la sua terra. Il distacco è durato poche sale, poche immagini, poi era di nuovo uno zampillare da ogni taglio, con furore e necessità.
Forse Frida rappresenta davvero i rami evangelici che vengono potati per dare più frutto, in ognuno di noi. E anche quando vedi i fiori, comunque senti anche la recisione che continua a bruciare. Senti insieme il sangue e il futuro che sbocciano dalle ferite. Una morte e rinascita che ci immettono nel ciclo non tenero della natura, che richiedono assenso, coraggio, un cuore grande e capace di contenere dosi innumerabili di dolore. Il dolore che nessuno si augurerebbe, ma che pure si risceglierebbe ogni volta che è stato oltrepassato e che ha fruttificato.
Non c’è metafora più chiara del ruolo dell’artista: morire per tutti, per nutrire e per dare senso a quello che ognuno prova ma che qualcuno ha anche il dono, il privilegio e la condanna di poter esprimere.
Questo ho pensato, e l’ho riamata – sconfinatamente – una volta di più.