Oggi a Milano nevica, e la vita vorrebbe tirarmi dalla sua parte, fuori di me. Ma ho gli occhi ancora fluidi della bellezza indiana e non riesco ad aggrapparmi agli impigli di questo venerdì. Sto cercando di non perdere nel cielo ovattato quello che lì era chiaro. Cammino di spalle dentro il pomeriggio, tenendomi stretta alle radici di nuove conquiste interiori. Controllo la distanza che ho da me: ho sempre un po’ di paura di separarmi di nuovo. Di agire troppo, di non lasciare spazio alla grazia delle cose che mi attendono e vogliono accadere.
Dopo questo intenso mese indiano, avrei bisogno di un lungo silenzio. Di lasciare che le cose vissute si dipanino, di dare loro parole calme, come una pelle che le avvolga e le faccia diventare corpo. Trovo sulla retina colori sparsi, emozioni intense che attendono che apra loro il cuore, nuove possibilità che hanno bisogno ora di tempo per raggiungermi qui nella vita che c’era. E se mi rimettessi subito a correre, sento che le tradirei, che arretrerebbero e sarebbero perse per sempre.

E poi trovo l’acqua che scorre. Di notte chiudo gli occhi e sento questo continuo frangersi liquido tra i sassi. L’acqua è l’immagine che mi ha inseguito lungo tutto il viaggio. L’Oceano di Auroville, che mi ha avvolto come una Madre. Che mi ha nutrito dell’energia creativa e mi ha aiutato un po’ alla volta a sciogliermi, a tirare fuori la materia morbida che avevo chiuso dentro il guscio di un corpo teso. Che mi ha messo al muro e mi ha costretto ad arrendermi ad una forza più grande.

E poi a Tiruvannamalai, gli occhi che non sopportavano la polvere delle strade popolate e che hanno cercato ancora di dissetarsi. La mia voce che senza dirmelo diceva di Sì ad una campagna verdissima di risaie, dove il giorno e la notte erano un rito sacro di creature che avevano l’orologio nel sole. Un amico inatteso e le fughe in mezzo alle vertebre che solcano il territorio tra le montagne degli Dei. Noi eravamo Dei, sdraiati alla luce del tempo che si svestiva di ore.

A Rishikesh, una volta salita al Nord, finalmente l’incontro con il Gange. E allora ho capito che forse tutto era stato solo un’iniziazione perché questo potesse accadere. Ero pronta a tuffarmi nell’anima liquida di questa terra, la sua spina dorsale. Non mi stancavo mai di mettere lo sguardo dentro il fiume, era come entrare in una nuova dimensione, una luce diversa, una musica sospesa che proseguiva a lato della vita affrettata, con una pace propria che contagiava il cuore.

E infine gli ultimi giorni, dentro una stanza a dieci passi dal fiume. L’acqua che si fa sogni e pensieri. Una musica che non riesco ancora a spegnere. La seguo, scorro con lei. Perché in India non accadono cose a caso e quest’acqua voleva anticipare le prossime pagine della mia storia. Che deve essere una storia fluida, che salpa l’ancora, che si lascia portare dal binario di un solco tracciato prima che io fossi io.
Per questo mi affaticano i vecchi impigli. Alzo le mani: lascio la presa. Le radici in cielo sono abbastanza forti, posso lasciarmi portare.