In questi giorni non ho scritto nulla. Le cose sono successe così intensamente e così velocemente che ho potuto fare una sola cosa, un solo atto pieno: vivere. E una volta di più ho capito che l’unico sforzo che devo fare è quello di restare aperta. Allora la vita passa e fa accadere ciò che è giusto. Se invece sono protesa verso il futuro o verso il passato, quindi verso desideri diversi da ciò che sta accadendo, questo inclinarmi ne ostruisce il passaggio. E così non può venire a galla il senso del cammino.
E poi ho capito che lì dove ho lasciato qualche cosa a metà, qualche cosa che non era potuto giungere a compimento perché era diventato troppo per le forze che avevo mentre accadeva, non è schivato per sempre: mi sta semplicemente attendendo. E di nuovo sarò riportata a quel punto esatto non appena sarò in grado di completare la storia, di scriverne il finale. E questo per ogni angolo buio: finché non avrò illuminato tutto, finché non sarò completamente amore.
Così un anno fa facevo il viaggio da Tiruvannamalai, la terra di Shiva, il potente trasformatore, verso Auroville, terra di Shakti, la grande energia materna che ci sostiene con amore, e che lenisce il dolore se sappiamo offrirci alle sue braccia. Era capitato in un momento particolare in cui di tutta questa dolcezza avevo davvero bisogno. Al punto che non avrei più smesso di nutrirmene. E quest’anno invece mi trovavo a fare il cammino opposto: dopo l’apertura del cuore, l’affidamento, la resa, dovevo tornare ai piedi della montagna. E un po’, mi sono accorta, ne avevo paura. Perché quel che accade in India non è mai un caso.
Avevo vissuto in un ambiente protetto, naturale, e di nuovo invece intorno avrei dunque avuto la città, la pelle dell’umanità, lo specchio delle mie imperfezioni. E anche qualche conto in sospeso che mi aspettava. Avevo preso una cameretta proprio di fronte al grande Ashram di Ramana Maharishi, il Maestro che ha lasciato in città un’energia pura che attira migliaia di devoti. L’avevo prenotata in un tempo in cui non ero neppure certa che avrei portato lì il mio viaggio. Quindi senza neppure pensarci troppo o controllare troppo a fondo come ci sarei stata. Invece all’improvviso era stato addirittura il lavoro con una Ong a riportarmi lì. Per dirmi che era ora di onorare questo appuntamento.

La prima notte è stata polverosa, rumorosa, piena di inquietudine. E il giorno dopo sarebbe stata la lunga notte del Mahashivaratri, quella in cui in assoluto il buio diventa profondo e dobbiamo guardare in faccia la nostra oscurità: trasformarla, lasciarla andare o illuminarla. Offrirla a Shiva, farci lavorare da lui. E a me sembrava che nulla stesse andando nel modo giusto. Avevo ritrovato un amico, mi aveva teso una mano, e poi era di nuovo sparito nel nulla, e io ancora di più mi sentivo insufficiente. La piccola Giulia abbandonata ripiangeva da dentro e mi riportava a vecchie abitudini di perdita.
Mentre il Mahashivaratri si agitava fuori dalla mia stanza triste, ho deciso che quello stato penoso doveva finire, e che non mi sarei più lasciata trascorrere un altro sonno così. Il mattino mi sono alzata presto, mi sono preparata, e senza quasi dirmelo, dopo poco ero già all’Ashram e oltre l’Ashram pronta a scalare la montagna di Arunachala. Una scalata che è anche simbolica, e si fa dentro di sé, purificando le proprie imperfezioni, offrendole in alto, trasformandole.
Era la quarta volta che facevo la grande risalita, e mi pareva la più dura. Mi chiedevo se davvero Shiva mi volesse accogliere, o se fosse stato solo un mio nuovo controllo delle cose, per portarle lontano da quello che non volevo. Ricordavo e ritrovavo perfettamente la sensazione di fatica che cresce dentro le gambe, nelle mani che servono come appigli, e la sensazione che la cima venga ad ogni passo allontanata. Poi ad un certo punto, non sai come, ma ti accorgi che sei arrivata.

C’era un’atmosfera strana, diversa da tutte le altre volte. Un paesaggio da dopo festa. Intorno una nebbia lattiginosa che non consentiva di guardare in basso e vicino a me una serie di pellegrini in silenzio che meditavano. Anche io ho incrociato le gambe e mi sono messa ad ascoltare la mia interiorità. All’improvviso è venuta a galla una luce brillante. Una voce che mi ricordava che io ero quella luce, se non la ricoprivo di buio.
Da quel momento morbidezza e forza si sono come prese per mano. Una conoscenza ha deciso di aiutarmi a scendere per una via più diretta e senza dirmelo io avevo già deciso cosa fare per tirarmi fuori dal buio. Esattamente ripetendo i gesti di un anno prima, quando ero scappata, in silenzio mi sono rimessa a fare le valigie. Ma questa volta non per scappare: per darla vinta alla gioia, che so di avere dentro. Ho chiamato l’amico che mi aveva teso la mano, nei cui dintorni avevo visto tutto il bene di cui avevo bisogno, e gli ho comunicato che volevo raggiungere quel bene, che sarei andata in campagna da lui. Avevo detto il mio sì ad una felicità che mi stava aspettando. E in fondo lo sapevo.

Così, dopo tanto vagare nelle acque della vita, ho sentito che per qualche giorno, la nave aveva trovato il suo porto. Nell’arazzo in cui siamo tutti fili diversi e separati, due pezzi attigui del disegno si erano ritrovati. Ero arrivata a casa. Sono stati così, fatti di cose semplici piene di tutto quello che è davvero importante, i giorni in cui sono stata felice. La mia parte morbida e quella dura che si affatica e resiste si sono incontrate. Sullo sfondo di questi giorni c’era infatti la montagna di Parvati, la compagna di Shiva, che di questa unione è simbolo.
Ora sono già arrivata a Rishikesh, dove avrò soprattutto giorni di yoga, assieme ad un gruppo di Ananda. E non guardo al passato: come capita quando ricevi un regalo, che non ti metti nel rimpianto: ringrazi.
