Fin da bambina ho evitato ogni cosa che limitasse la mia libertà. Davo un nome tutto mio a questa idea astratta di libertà. In particolare mi mettevano in difficoltà gli impegni a lungo termine. Mi piaceva moltissimo studiare ma detestavo l’inizio dell’anno scolastico che mi avrebbe tenuta ferma per nove mesi dietro un banco, cinque ore al giorno scandite da tre campanelle. Potevo acquistare una maglietta per l’estate, ma il cappotto che doveva durare qualche anno non riuscivo mai a sceglierlo. Sono riuscita a trovare un indirizzo per l’università, solo perché non ho pensato che sarebbe stato quello della mia vita.
Lo stesso è continuato da adulta. Ho scelto di fare la free lance, e quando, per caso o per fare anche questa esperienza, mi sono trovata un’assunzione a tempo indeterminato a scuola, dopo un anno mi sono licenziata. Ricordo benissimo l’istante in cui ho deciso: mi stavo piegando per mettere il registro nel cassetto (quello più basso, ero la più giovane dell’istituto, il nonnismo della classe insegnanti voleva così) e un’insegnante anziana mi ha detto queste parole: “Ora sai cosa farai per tutta la tua vita”. La vista ha virato al nero, e già nel pomeriggio ero dal preside ad informarmi come potevo fare a licenziarmi. Lui mi calmò, mi chiese di concludere l’anno. Ma fu solo un rimandare, feci poi alla fine una serie di manovre attraverso l’università, per liberarmi di nuovo da quell’impegno.
Neppure la sicurezza economica, la stabilità quotidiana, sono mai riuscite a farmi cambiare rotta. L’effetto secondario di questa difesa strenua della libertà è stato il vivere sempre costruendo legami piccoli. Una piccola casa a Milano, che non deve durare per sempre. Un rapporto di lavoro non continuativo con i giornali. Una serie di esercizi d’amore che non devono però essere una scelta definitiva. Viaggi, ma tenendo sempre il controllo anche sul luogo in cui ritornare. La difficoltà persino di dire ancora di sì ad un cane, che è una delle creature di Dio che amo di più in assoluto. Compromettermi con il mondo, ma senza firmare di averlo fatto, per l’impossibilità di appartenere totalmente a qualsiasi cosa.
Il risultato è sicuramente di indipendenza, di forza personale, ma anche di costruzione di sentieri limitati, in cui procedo sola, perché non posso veramente fare posto a nessuno. In sostanza non si tratta di libertà, ma di protezione dalla forza dirompente della vita. Come se questa forza mi avesse già ferito a prescindere. E tutto questo ora, dopo vari anni di ricerca interiore, lo guardo con un sorriso. Mi faccio anche un po’ tenerezza, nella mia sindrome di bambina randagia, che si lamenta che non ha una casa, ma che non ne vuole realmente trovare una. E quando si affaccia qualcosa che potrebbe essere giusto, arriva subito anche l’idea che potrebbe arrivare qualcosa di ancora più giusto, e quindi devo tenermi libera per quando sarà.
Ma si sa che siamo qui solo per questo: per imparare, per ripassare i nostri solchi di buio ed illuminarli. Quindi ora è proprio tempo di occuparmi di questa radice grossa della mia vita. E per farlo ho bisogno di questi strumenti: affidamento ad un disegno più grande, amore per me stessa, consapevolezza del mio valori. Perché si tratta alla fine di questo: di avere un proprio radicamento interiore, allora non ti spazza più via il primo vento che passa e puoi lasciarti andare. Questo tempo di avvicinamento a me stessa in realtà è iniziato quando le cose della vita mi hanno portato, senza quasi che me accorgessi, a condividere. Scrivere anche per altri. Insegnare yoga. Farmi carico anche di altre vite.
Queste cose sono iniziate in un modo così delicato che non mi sono quasi neppure accorta. Non mi sono spaventata e non ho dovuto scappare. Anzi ho trovato un senso profondo per cui resistere ed illuminare i pezzi di buio che incontro, non solo per me, ma per tutti quelli che si trovano sugli stessi passi del cammino. E ora questa chiamata si è fatta fortissima. Qui in India, dove le cose che hanno un significato respirano in mezzo alle cose che accadono, e queste ultime non ne sono che la proiezione, lo sento fortissimo. In modo che direi, senza paura, definitivo.
E’ chiaro, sono qui per questo: per dire di Sì alla vita. Per accorgermi che non è così tremendo aprirle non il pertugio stretto ma il portone grande, dove può entrare e portare colori a tutta l’ampiezza contenuta in ognuno. Sono qui per arrendermi, ancora una volta. Non per trovare un balsamo al mio spavento originario, ma per accorgermi che non mi fa più paura, e che ora posso anche compiere la missione per cui sono venuta qui. Un Sì totale, che implica aspirazione perfetta alla verità, che implica il rifiuto di tutto ciò che contraddice questa direzione, e che comporta un’offerta totale di Sé. E chiede coraggio. Ma un coraggio nuovo: non muscolare e affaticato come è stata la mia vita fino a qui, ma carico di certezza di cooperare con un’energia più grande ed inesauribile.
Ecco sono arresa alla vastità. E eppure sono calma e infinitamente libera. La libertà ora è quella di trovare la mia strada verso quella fioritura che mi attendeva da sempre. Ringrazio questo luogo per i nuovi doni, ed è tempo di proseguire il viaggio.