Sono arrivata qui da tre giorni: ma in realtà non sono ancora completamente arrivata. L’India è così: ti accoglie piano piano, a strati. Profondamente. E quando pensi di essere approdata tutta, ci sono sempre ancora parti di te che devono prendere la forma di questa terra di trasformazione.
Sono arrivata dopo tanti mesi di moltissime cose e, credevo, con una forza nuova che non si sfinisce più. Che riesce a ricolmarsi sempre con l’entusiasmo di ogni momento di questo fare. Mi sbagliavo, non ero più forte: ero tesa. Non ero nella corrente di un’energia più grande: era ancora ego, erano nervi e denti stretti. E le forme solide di questo ego ora le vedo: sono sbarre in cui ho costretto quello che dentro chiede da tanto di respirare. Ma non so più come toglierle.
Sono qui, in riva all’Oceano, nel Golfo del Bengala, nella città utopia di Auroville cresciuta intorno ad un tempio d’oro dove puoi entrare solo senza queste pelli rigide, questi corpi callosi, e per ora non posso fare altro che osservarmi correre. Vedermi fuori tempo nel battito di questa terra, mentre cerco di realizzare cose, avere tutto in ordine, seguire i programmi che rimugino di notte e scrivo il mattino. Ed è già tanto che io non sia più tutta in quella che corre, che una parte di me possa stare seduta ad attendere che anche l’altra si fermi.
Quando non sono fuori, nelle strade tra la città utopia e l’Oceano, strade di terra rossa che percorro con uno scooter che non è più bianco, sono dentro una casetta in un giardino della città. Non lontano dal tempio d’oro. Una casetta fatta di assi di legno, angoli di mattoni e tante finestre coperte non di vetro ma di velo. Di notte allora si inverte il movimento, e dentro la casetta di velo è quella che corre che aspetta che si svegli la parte di me coricata che vorrebbe dormire. Che la inquieta.

Sento il respiro che passa tra finestre velate, ma il mio va ancora troppo veloce. Posso ascoltare il canto delle cicale, gli uccelli notturni, gli scoiattoli che si rincorrono sul tetto, ma ancora non posso essere completamente qui, con loro. Quando, per brevi istanti, riesco a cadere nel sonno, sento l’epidermide rigida che scricchiola, la parte morbida di me che vorrebbe venire fuori. Ad ogni movimento la corazza si crepa. E so che sarà così finché non sarò disposta ad arrendermi completamente, ad appenderla nell’armadio come un abito vuoto. Allora sì, sarò completamente qui.

Oggi ho fatto il primo avvicinamento al tempio d’oro, il sacro Matrimandir intriso dell’energia divina materna, quella che ti abbraccia quando hai dato il tuo assenso a lasciarti andare, a sapere fino in fondo che sei solo un canale ma niente di tutto il tuo fare è veramente tuo, e perciò non ti tendi, non ti preoccupi, non attendi risultati. C’erano impedimenti, so che ce ne saranno finché il mio ego non dondolerà come un abito vuoto e avrò smesso di seguire la sua efficienza.
Il Matrimandir, che avevo già descritto lo scorso anno, simboleggia il seme della Terra, la sua anima che viene a galla. Al suo centro c’è un loto dai mille petali e intorno tante stanzette da meditazione dedicate alle dodici qualità dell’energia materna divina. Dentro il globo, nella camera interiore, c’è invece un luogo candido, una camera iperbarica dove l’anima ritorna a casa, e tutto quello che si era strappato da te viene riconciliato.
Oggi ho fatto solo la prima manovra di avvicinamento e sono riuscita ad arrivare fino ad un petalo: mi è capitata la Bontà. Mi sono seduta dentro la stanza rosata, senza fare nulla, come una spugna che beve. Dopo un po’ che mi dissetavo, ho sentito un urlo dentro. Quella che ha corso, che ha stretto i denti, che ha teso ogni fibra di ogni muscolo per fare ogni cosa fino a qui, gridava. Piangeva. Diceva che voleva avere un regalo. Che vuole ricevere qualcosa, senza avere fatto nulla per meritarselo. Solo per il fatto di esistere. Solo per bontà. Per poter riposare. Per respirare.