Da un po’ di giorni mi gira intorno e sotto la pelle un po’ di influenza. Mi sono ostinata a negarle l’accesso andando più veloce di lei, ripetendomi che non me lo posso permettere e che presto devo partire. Non posso ammalarmi ora. Una parte di me però mi sabota e non mi segue: Giulia, hai bisogno di riposo, ripete. Allora oggi ho preso una decisione improvvisa: ho deciso di stare a letto tutto il giorno, prima che sia lei ad impormelo.
E adesso che sono già trascorse alcune ore di questa giornata, inizio a vedere quanti eventi dovevo far decantare, quante vocine interiori volevano parlarmi. In questi ultimi mesi sono successe, di corsa, moltissime cose, e ogni tanto ho avuto la sensazione di entrare in una nuova alba della mia vita. Ma non mi sono mai potuta veramente fermare a riflettere, ad annotare cosa stesse cambiando, cosa stesse fiorendo.
Ne ho sentiti i tremiti sotto l’epidermide. Ad esempio alcuni giorni fa, alla redazione del Corriere della Sera. L’incontro con quel direttore che un tempo attendevo con ansia, con un agitarsi di scintille eccitate nello stomaco. Questa volta avevo portato all’incontro soltanto me, un maglione giallo, il mio cappotto lilla che sta bene con i capelli rossi. Avevo da dire solo la verità che sono, non mi importava di fare buona impressione, e neppure di alcune parole che non mi sono venute precise e con cui avrei potuto colpirlo.
Vedevo nell’ambiente anche tante cose che per me non erano più importanti: quello sfoggio di poteri, di targhe alle porte, di grisaglia e di altre esteriorità che si vorrebbero far parlare al posto dell’anima. Ed ero contenta di essere rimasta amica di un signore che mi aveva dato fiducia e che ora mi parlava delle sue preoccupazioni di padre con le figlie adolescenti. Gli ho dato il mio libro, ne era contento, in qualche modo ci si rispettava da pari, ci si ascoltava. Ma lui forse era rimasto dove era sempre stato, ero io che ero salita alla mia altezza, che mi vivevo con più fiducia.
E soprattutto non c’era giudizio, non più. Altre volte in città mi ero sentita premuta dentro pensieri non miei, e mitizzavo l’altra mia vita in campagna. Da quella vita ero appena rientrata, ma anche da lì avevo portato un’idea di me nuova. Mi sono accorta che non mi mancava davvero la natura, l’ideale di persone più pure, con meno filtri davanti la verità: in realtà mi mancavo io per come avevo saputo essere in quel luogo. Ma se questo centro si fosse fatto più stabile in me, avrei potuto portarlo in qualsiasi altro posto.
Ho accettato infine di essere più cose, ho smesso di pensare di potermi esaurire in una soltanto. Ho guardato a questa varietà con gioia. Ci sono semplicemente dei momenti in cui avviene un riconoscimento, ma accadono quando io sto bene dentro di me. E anche la casa sui colli spesso ha molte cose che non mi assomigliano, e va bene così. Forse ho cercato lì una famiglia per riposare, ma ora vedo i limiti anche di quella forma e risento la necessità di essere libera. Ma non crollo dentro questa nuova constatazione di diversità. Non ho più neppure la tentazione di vedere me con il giudizio degli altri.
Ecco, forse è successo questo: mi sono accettata. Un tempo avevo sofferto molto per la mia intensità. Mi ero sentita spesso fuori posto, avevo cercato prima di uniformarmi ai desideri degli altri, ma non era mai abbastanza; poi di stare più tempo che potevo da sola. E questa solitudine è stato un passaggio importante, perché è stato così che ho potuto, a poco a poco, rassicurare la mia anima, aiutarla a venire alla luce. Oggi vedo i primi germogli di queste radici, l’inizio di una nuova fioritura.
Mi sono raggiunta e mi sono accolta, non faccio più confronti. Vedo tutti i disegni di ognuno per trovare sé e ne gioisco. Vedo anche il mio e non mi spaventa più. Vedo il mondo da una prospettiva più ampia e io ne sono dentro: non mi fa più male.