Fare bene il bene, favola di Natale

E’ Natale e sto pensando che non è così facile fare il Bene. Un anno fa ne avevo il cuore colmo, e mi si bagnavano gli occhi per le fioriture che nascevano dove avevo appoggiato l’amore. A un giro di sole ho visto quei fiori appassire: il mio bene non ha fatto abbastanza bene. Allora penso che a volte il bene è resistere dall’intervenire nel dolore di un altro. Sostenerlo, mandare luce e preghiere perché superi la sua prova, ma non togliergli l’opportunità di crescita che gli è stata riservata. E colmare quel vuoto potrebbe servire invece soprattutto a te, a provare il momento di pienezza che viene dal pensiero di aver fatto del bene. Ma è ego, non è verità.

In India avevo incontrato un ragazzo. Aveva occhi fondi, intensi. Una faccia pulita. Ero scesa da una montagna sacra e lui era la prima cosa che avevo visto ad un caffè dove cercavo qualcosa di fresco da bere. Ti chiami come la mia fidanzata, mi aveva detto. E io avevo immaginato una vita bella dietro le sue risate di denti bianchissimi. Poi, un po’ alla volta, ho cominciato ad intuire che non era così. Parlava a voce bassissima, come chi non può alzare la testa da tanto. E questa ragazza con il mio nome era stata una turista che forse non si ricordava neppure più del tempo passato insieme. Dove stai? Gli ho chiesto. “Qui, al coffee shop. Di notte, quando è chiuso, mi stendo per terra. Lavoro al banco per ripagare il proprietario dello spazio che mi lascia”.

Aveva modi dolci e molte attenzioni, una sensibilità che diceva con quello che dava quello che avrebbe voluto ricevere. Io ero prossima a ripartire, ma anche in Italia ci ripensavo. Cosa ti servirebbe per avere un letto, un sogno di futuro? Gli chiedevo. Ho contato sulle dita: quello che per lui era tutto per me era poco. Ti aiuto io, se non ti offendi, gli ho proposto. E’ stato l’avvio di una piccola casa in affitto a due stanze, un materasso, un piccolo giardino. Poi telefonate con parole sciolte in risate. E gratitudine continua, che non ne volevo così tanta. Un giorno mi manda delle foto: nella casa stava costruendo un suo coffee shop. Splendida idea, gli ho detto. Ti aiuto, se non ti offendi. Il mio poco era il suo tutto.

Il caffè inaugurò esattamente il 31 dicembre di un anno fa. Io partii per l’India per festeggiarlo. Ero felice della felicità che stava crescendo intorno. Mi pareva così facile cambiare il mondo. Dopo qualche giorno, nacquero i primi problemi: tutti i suoi amici di quando dormiva al caffè si erano fatti sotto. Ognuno voleva qualcosa da lui, che era uscito dai guai. Io intanto dovevo ripartire. Lui litigò con tutti: non era più uguale a loro e la sua voce cambiò, si alzò. E intanto i clienti al caffè venivano e non venivano. Mi telefonò, mi chiese aiuto. Iniziai a sentirmi a disagio. Quello che per lui era tutto per me era poco: lo aiutai.

Venne la stagione calda dell’India, quella in cui i turisti fuggono via. Al caffè non andava più nessuno. Lui si stese sul materasso e si mise a dormire sempre, notte e giorno. Io passavo dall’India per un lavoro. Lo visitai, avevo portato valigie piene di sorprese per il suo caffè. Ma trovai solo lui e alcuni nuovi amici che si erano fatti sotto per dormire sotto il suo tetto. Presero le sorprese e le mangiarono loro finché durarono. Poi ripresero a dormire. Notte e giorno. Dissi che non mi piaceva quel che vedevo: lui urlò, diede le colpe fuori, ad altri, a caso. Anche a me. Mi allontanai, presi un’altra strada.

Passò del tempo e perdonai, perché è bene farlo e perché ringraziavo comunque di avere avuto momenti veri di vita indiana. Perché avevo imparato tanto anche io dal bene, credevo. Ogni tanto mi scriveva. Aveva ancora litigato con gli amici, un’altra volta ne aveva di nuovi, avrebbe fatto ripartire il caffè più bello e più curato che mai, appena fosse finita la stagione delle piogge. Ma nel frattempo l’affitto della casa non era stato pagato da mesi, le spese per riavviare il caffè le fece a debito. Riaprì, ma non si svegliava più in tempo il mattino. Mentiva ai debitori dicendo che in pochi giorni avrebbe avuto i soldi. Mentì a me. Mentì alla famiglia. Mentì agli amici.

Un giorno, dopo un lungo periodo di silenzio, mi chiama. Non gli rispondo e mi scrive: non sa come uscire dai guai. Racconta qualcosa di falso e molto grave per toccarmi il cuore. Io taccio. Sto male, penso che quello che per me è poco per lui è tutto, ma resisto. I suoi amici mi confermano che sta mentendo. Lo lasciano, se ne vanno via. Dopo pochi giorni, pochi giorni fa, la nuova foto che mi manda lo ritrae di nuovo senza nulla, che dorme per terra, sopra il sentiero di un ashram. La sua prova deve ripartire da lì, dove non l’aveva superata e dove io non gliel’avevo fatta superare. A questo sto pensando a Natale.

Non credo che potrò smettere di fare il bene, ma la strada di un altro non la si può fare, e non è giusto frapporsi nei piani che ciascuno prima di scendere ha stretto con Dio. Noi tutti qui abbiamo un preciso cammino di ritorno a casa, con tappe fatte apposta per noi. E non se ne può saltare neppure una. E allora, se non sei davvero l’unica soluzione che salva, a volte il bene è resistere. E’ pregare, è irradiare luce, è dare l’esempio. Non accorciare la strada di un altro, che non si può. Neppure se ti viene da piangere, neppure se il tuo poco è il suo tutto. E questo è amore ed è verità.

Se incontri un uomo che ha fame è dovere sfamarlo, se ha sete dissetarlo, se è in pericolo dargli rifugio. Se piange, consolarlo. Ma se incontri un uomo che sta facendo il percorso di ritorno nella dimora divina e affronta le sue prove, devi farti da parte. Che c’è un unico bene da fare, ed è  la verità.

 

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