Devi essere abbastanza distratto perché un dono trovi lo spazio per arrivare. Fin tanto che lo richiedi con il cuore pieno di mancanza, può raggiungerti soltanto lo specchio del tuo vuoto. E’ dalla gioia invece che discende la gioia, e il corrispettivo di tutte le tue preghiere esiste in cielo: attende soltanto che tu salga alla sua altezza, a mani libere.
Così in questo periodo di tanto, di troppo fare, un giorno ho rivolto al cielo parole senza attaccamento: forse un dono di bene mi aiuterebbe a non prendere sul serio questo tempo impegnato, lo trasformerebbe in calma e pazienza, ho pensato. E senza quasi accorgermene, senza quasi dirmelo, avevo messo un seme.
Poi me ne sono dimenticata e ho ripreso a fare le mie cose. Intanto il seme cresceva, e quando è stato il momento è arrivato il frutto del mio desiderare. Era in realtà un dono che avevo richiesto due anni fa, ma allora ero tutta lacrime e disperazione, e non poteva scendere del bene in quelle condizioni.
Due anni e mezzo fa avevo preso un cane in canile. Avevo visto la sua foto, il pelo rosso, gli occhi imploranti, e non ero riuscita a resistere. Io amo i cani, un piccolo cane salito con gli angeli ormai sei anni fa è stata la cosa più felice della mia vita. L’arrivo del nuovo cane forse voleva replicare quell’amore.
In mezzo però erano successe nella mia vita cose grandi e terribili, cose che mi avevano fatto ripiegare il cuore. Credevo fossero faccende ormai troppo vecchie e che il cane fosse un ricollegarmi direttamente al tempo che aveva preceduto quella frattura. Invece tutto ciò che non hai realmente attraversato e superato prima o poi ritorna a bussare, a farti fare un’altra prova di crescita.
Così arrivò il cane con un grande camion, insieme ad altri cani, dai canili del Sud. Era grande, buono, e insieme trepidante e terrorizzato al percepire che qualcuno potesse renderlo felice. Lo chiamai Romeo. Ricordo perfettamente la sua emozione il giorno in cui iniziò a pensare di avere proprio lui una casa. Le corse sulle scale e la soddisfazione di riconoscere la porta: quella era la sua casa.

Ricordo che quel giorno piansi. Lui la sua prova la stava affrontando: aveva avuto un padrone, era stato abbandonato, e piano piano si stava di nuovo affidando a qualcuno. Quello che non avevo invece capito era che io non avevo ancora superato la prova.
Man mano che passavano i giorni e le settimane, Romeo era sempre più attaccato a me. Talmente attaccato che diventava una pena ogni mia uscita. Ogni volta per lui era per sempre. Usciva sul balcone e piantava lo sguardo nel vuoto e piangeva, abbaiava e mi cercava in modo straziante.
La notte piangeva fuori dalla mia porta e se la socchiudevo veniva più volte a controllare che io ci fossi, solo questo lo rassicurava. In me cominciò a salire un turbamento che non riuscivo a controllare, divenni completamente il cane: le sue paure, il suo abbandono, la sua solitudine. Vidi in lui lo specchio del mio dolore.
Non ce la feci. Dopo un mese, Romeo se ne andò. Il cielo, ne sono certa, mi venne in aiuto e mi portò una bravissima persona che cercava un cane. Aveva una casa grande e un balcone. Una vita regolare e un bambino. Iniziammo a fare il passaggio.
Quello che ho provato quando mi sono girata e l’ho lasciato non credo che potrò dimenticarlo neanche al termine dell’eternità. Proprio io, che ero stata abbandonata e che amavo i cani, gli stavo facendo provare un nuovo abbandono. Lui intanto aveva ritirato indietro la sua fiducia, era ritornato esattamente come quando era arrivato dal canile: inebetito dagli eventi. Dormiva e mangiava senza più espressione.
Piango ancora mentre lo scrivo. Nei mesi che sono succeduti a tutto questo avevo un solo pensiero: riavere Romeo, riparare con lui, con me. Ma non era più possibile cambiare idea. Non era neppure giusto, se gli volevo davvero bene, al di là di tutto quello che mi stava attraversando.
E poi prima dovevo guarire. Io non ero stata in grado di dargli rifugio, esattamente come non ero in grado di dare rifugio a me stessa. Di accogliermi, di perdonarmi, di amarmi, di trattarmi bene. Ero molto brava a vivere da guerriera, mi ero temprata a vincere nelle sfide, a resistere nelle sofferenze, ma il mio cuore non era più in grado di aprirsi.
Romeo è stato un grande maestro, mi ha insegnato che la mia vita così come stava andando non aveva senso: che serve un po’ di morbidezza, serve il silenzio dal fare, e serve l’amore. Non si può davvero far conto solo su di sé: dopo aver imparato a stare in piedi con le proprie gambe, bisogna reimparare a ricevere, ad affidarsi.
Sono due anni, dunque, che sto cercando, ad una ad una, di togliere tutte le serrature dal cuore. E qualcosa di tenero, di calmo, di spazioso, ha ripreso a vivere in me. Mi dedico del bene. Mi allontano dal male. Mi prendo del tempo per non essere tesa, per non essere neppure ostaggio della tensione altrui.
Così l’altro giorno chiedevo un dono di bene al cielo. Ed è arrivato quello che non aspettavo più: Romeo, dopo due anni. Romeo ha una meravigliosa padrona, che è diventata una presenza bella della mia vita. Non è più questione di possesso ora, ma di una storia da chiudere per poter ripartire.
Così lei era via e Romeo è tornato qui, dove tutto era finito bruscamente. Ed eravamo altri, pronti. Con cuori pieni d’amore, di gioia, di gioco. Sono stati giorni bellissimi e pieni di senso. E una volta di più rinnovo la mia fiducia alla vita, che ritorna, che ti dà sempre una seconda possibilità, quando sei pronta. Perché tutti i finali di tutte le storie iniziate devono essere scritti, prima di chiudere questo cerchio di eternità.