Un settembre di tanti anni fa
Mi aspettavo un settembre mite, dopo l’estate infuocata. Invece il rientro in città sa già di tutto il tempo che si passa qui ad attendere la primavera. Sa di tempo lungo, indifferente, che ripete il suo ritmo sempre uguale e sempre frenetico: puoi solo decidere se salirgli in groppa o restarne fuori. E non è facile restare fuori da una città così.
Me la ricordo perfettamente la prima volta che ho addentato il sapore metallico di questa corsa verso l’autunno. Ero appena arrivata a Milano, era 15 anni fa. Una cifra che fa paura, essendo ormai un terzo della mia vita. Allora escludevo che mi sarei fermata così tanto. In realtà non ero neppure sicura di esserci mai arrivata. Ero più che altro capitata, come un resto dell’estate portato sul bagnasciuga dalle onde.
Ero venuta qui anche per il grigiore, anche in cerca di cieli che scendessero giù fino a terra in cui potermi nascondere. Nelle mie montagne, sullo sfondo blu, ero troppo visibile e io avevo bisogno di non esserci. E nel momento stesso in cui, per caso e per fuga, prendevo la direzione di questa città, mi accorgevo che era come se un evento catastrofico mi avesse seguito, perché dietro le mie spalle non c’era più niente: un buco. Un buco che ricominciava ad avere tre dimensioni con questo cielo grigio.
Ero sopravvissuta alla mia storia, e non era una cosa sicura che accadesse. Quello che era successo di là dal buco devo ancora nominarlo piano, a bassa voce. Per non svegliarlo. Sulle montagne io vivevo in una casetta di pietra. Un cane, un gatto. Un uomo che mi aveva chiesta in sposa troppo presto, a cui avevo risposto troppo tardi. Avevamo fissato un appuntamento, ma i nostri calendari non si incontravano più. Dunque, non si incontrarono: poche settimane prima lui si rese conto di non farcela. Non ce la fece. Saremmo dovuti venire insieme a Milano e ci arrivai sola, ma lasciando di là tutta la mia vita come era stata fino a quel momento, e portando solo una grande domanda: ce la farò?.
Mentre io cercavo un po’ alla volta di rispondere a questa domanda, come potevo giorno per giorno, annaspando dentro il grande male che avevo nel cuore, di là nel buco c’era qualcuno che sentiva il mio stesso dolore: era la mia famiglia, le persone che mi vogliono bene. C’erano persone che non sapevano ogni mattino se mi sarei svegliata o se il male avrebbe avuto la meglio, ma che se qualcosa poteva rinascere in me doveva essere lontano.
Dei primi passi pesanti non voglio ora parlare, ma un po’ alla volta riuscii a trovare il mio posto sotto questo cielo, in questo ritmo frenetico. Credo che quello che veramente mi salvò fu che da allora iniziò a farsi assillante una domanda che avevo sempre avuto nel petto: ma che senso ha tutto questo?. Perché costa così tanto dolore ogni piccola gioia qui? E’ stato esattamente da questa frattura, da questo interrogarmi che è iniziata, a poco a poco, la mia ricerca della luce. I miei esercizi di felicità. Che ora sono un libro, che ora sono una felicità anche per quelli che erano stati in pensiero per me.
Oggi loro hanno il libro in mano, io non ancora: lo toccherò tra qualche giorno di ritorno nella mia terra. Sarà come aver chiuso un cerchio, aver conquistato una nuova libertà per i passi che verranno.