Ieri pomeriggio ad un certo punto tutto era troppo. Di nuovo sentivo la superficie frettolosa delle cose frizzare sopra pensieri di bellezza, pensieri che avevano cercato di respirare nella giornata, senza trovare spazio. Ho cercato di difenderli, di promettere loro attenzione, ma ormai ero troppo impegnata a correre, ad uscire fuori di me, e un po’ alla volta si sono spenti. Alla sera ho trovato appena un bagliore fioco dei lampi che erano nati nel giorno. E tutta la mia stanchezza.
Ho fatto la cosa più facile: mi sono arrabbiata con quello che succede fuori. Con questo disturbo dell’attenzione globale, per cui ci interrompiamo l’un l’altro continuamente con messaggi, allerte, controllatine ai Social che sbattono le ciglia con trillini e notifiche, allarmi che accendono i riflettori su cose finto-importanti e ci fanno sentire troppo impegnati per pensare alle poche cose che contano davvero. E intanto fuori dagli schermi scorre maggio, i papaveri, i campi gialli di colza; sfioriscono il tarassaco e le pratoline.
Per qualche istante ho sentito la superficie di chiacchiere in cui ci tuffiamo dal primo gesto del risveglio come una materia palpabile. Una nebbia in cui ci si può perdere per sempre, ma oltre la quale c’è il sole. Ho desiderato di fermare tutto, di scendere dal mondo, di nuovo mi sono sognata da eremita, a fare indigestioni di silenzio. Mi sono rivista desiderare queste stesse cose da sempre, ed essere sempre qui a correre.
Ma non era tutto qui, ho capito quando ho smesso di dare la colpa ad altro, ad altri. Non ero più certa che fosse questo mondo organizzato sulla distrazione di massa a distogliermi da me, da quella luce che ogni tanto era salita fino alla bocca e avevo deglutito di nuovo nel magma indistinto. Forse invece ero io a correre in fila nel mondo per evitare me stessa. Per poi ritrovarmi ciclicamente a sentire che tutto quello che è stato finora è appena una preparazione di qualche cosa che non inizia mai. Una continua prova generale, senza un debutto.
All’improvviso, quando ormai era già notte e camminavo per la città, in uscita dall’ultimo finto impegno, forse perché la stanchezza mi impediva di fare le solite tre quattro cose insieme, mentre solo guardavo i piedi muoversi nel primo caldo dell’anno con pochi altri piedi intorno, per un istante la luce ha trovato il varco. Ho ripassato tanti momenti identici in cui rimandavo di essere me. E non importano le scuse con cui l’ho fatto: la vita, la sopravvivenza nel mondo, il mutuo o il compiacimento di qualche piccola gloria. Non ci sono vere giustificazioni.
Ho risentito il sapore di quel magma denso che voleva sbrogliarsi in qualche cosa di limpido, forse in parole scritte, che ho ogni volta rimandato giù in gola, che ho messo nel tempo degli hobby e non della vita, perché c’era sempre qualcosa di realisticamente – con l’occhio pragmatico della realtà – che veniva prima. E in verità perché sputarla fuori quella matassa aggrovigliata nelle viscere che vuole divenire luce mi è sempre costato le doglie di un parto. L’istante prima di iniziare ad uscire, farei di tutto pur di non fare i conti con il caos che vuole divenire chiarezza nella pagina bianca.
Sì certe volte l’ho fatto: sono stata una professionista di cose più o meno simili a quella che dovevo fare: ho intasato giornali, Social, amici, messaggi, appunto, di abbozzi di me. Mi sono pulita la coscienza liberandomi così, a caso. Come un amore che va a mercimonio per paura dei rischi veri del cuore. E se sono anni che prego di compiermi, ora so dietro quale nebbia, dietro quale fretta c’è tutto quello che sto cercando. La vita che aspetto da una vita. Quello che con una parola completa indiana si chiama Dharma, ed è la missione per cui ognuno di noi è sceso in Terra. E non avrebbe null’altro di vero da fare. Tutte le altre scuse non sono sorrette dall’universo, e questa strada invece, ne sono certa, appena si avesse il coraggio di guardarla negli occhi, farebbe fiorire anche terre sfinite, realizzare sogni e miracoli, camminerebbe con il passo sicuro della verità.
E se condivido oggi queste parole è perché sono certa che sotto questa coltre, dentro la nebbia, ci siamo in molti. Ci hanno detto che si chiama vita necessaria che fanno tutti da sempre, ma non è vero: si chiama paura, e la vita te la ruba tutta invece, se non la lasci andare. E allora ci voglio provare, è una promessa che mi devo, che devo ai doni non miei che mi hanno prestato in questo abito di carne perché li restituissi in opere.