La prova più grande che mi chiede l’India questa volta è di non avere paura. Mi mette davanti agli occhi continuamente quintali di nuovo, scenari completamente diversi da quelli attesi, punti di vista non contemplati, e non devo tremare. Mi toglie la terra sotto i piedi affinché mi appoggi, mi fidi, mi lasci andare all’indietro, dove non vedo, dove c’è quello che non conosco, che non so se mi prenderà in tempo mentre cado.
Sono arrivata ad Auroville, la città utopia fondata alla fine dei ’60 da Sri Aurobindo e dalla sua compagna spirituale Mirra Alfassa – un luogo che è la prova vivente che gli esseri umani sono cellule di un unico organismo – sei giorni fa per incontrare un amico e per proseguire con un altro il cammino, e sono ancora qui e forse questo sarà anche il punto d’arrivo, e non l’ho scelto io.

Ora vivo nella casa di una famiglia argentina, tra l’oceano e la comunità, ho una stanza piena di tende velate, come una camera di vetro sospesa tra i rododendri e immersa nel cuore della vita. Mentre le pale del ventilatore ruotano e si uniscono a una piccola corrente che rende abitabile la notte, mi sembra di sentire palpitare tutto il mondo. Cani, bambini, anziani, gli alberi stessi, tutto sembra invocare acqua, cibo, frescura. Eppure ogni giorno i rami della natura tropicale offrono fiori profumatissimi per infilare corone votive, e tutto ciò che vive si apparecchia con colori senza timidezza per festeggiare il nuovo sole e inginocchiarsi a tutto ciò che arriverà, se sarà cosa giusta. Come fanno a non avere paura? Qui c’è una lezione da imparare, mi sono detta.
Ho iniziato gli esperimenti nella casa in cui sto, dove parliamo spagnolo e dove a volte mi pare di non potermene stare abbastanza in camera spaventata per conto mio. Ho provato invece a fare esattamente il contrario: ad ascoltare, ad andare più a fondo, fino a dietro i muri che aveva eretto lo spavento. E non appena in me si è aperto lo spazio, si è accesa la luce, questo non è stato più un luogo straniero ma è diventato casa e un nuovo pezzetto di umanità vicina.
Così con il mio amico, che avrebbe dovuto viaggiare con me, e non può essere così per un grave stato di salute capitato alla madre: ho provato a non esporgli più il mio lato deluso, il lato che attende che ritorni il passato, che non vuole accettare che il programma sia cambiato, ma invece a supportarlo, a sommare la mia forza alla sua per sostenerlo, e magicamente se n’è andata da questa porta ogni rigidità che non accettava il volto della realtà, e di nuovo ho sperimentato un’espansione di luce.
Ho capito che è proprio vero: quello che semini raccogli, come recita la legge del Karma, ovvero della causa-effetto. Se semini spavento, raccogli muri; se semini amore raccogli unione, e gioia, e accoglienza per ogni cosa. La vita esce dai nostri pensieri, non entra in noi dalle circostanze esterne, che sono sempre neutre, e sono solo i nostri umori a colorarle, a giudicarle.
Così sono arrivata al giorno che mi era destinata la visita al Matri Mandir, il grande tempio a forma di globo d’oro che è il simbolo di Auroville, dell’energia della Madre, come è chiamata la fondatrice Alfassa, che è una delle incarnazioni dell’energia materna del creatore. Ed è incredibile come, scossa e preparata dalla vita, mentre camminavo verso il grande tempio, e dentro i suoi interni bianchi, puri, mi sia arrivata chiara nel cuore una forza che mi suggeriva di smetterla di spingere tutto per cercare sempre ogni cosa avanti, con sforzo, con fatica, con controllo. Che dopo aver appreso a trasformare ogni sfida in opportunità, ogni buio in luce, c’era un passo ulteriore da fare: imparare a ricevere direttamente il bene. Ancora una volta, sedersi indietro, lasciarsi sorreggere e nutrire. Sono scoppiata in un pianto risolutivo, in cui ho sentito sciogliere quattro decenni di ripida salita.
Oggi, mentre scorrazzavo con il motorino nei villaggi interni, sulla linea dell’Oceano, tra le cinque e le sei del pomeriggio, quando il sole rendeva d’oro ogni cosa, e accendeva la strada di tante piccole scene umane, ho sentito che avevo ancora un po’ di spavento. Ci ho pensato bene e ho compreso che è proprio il fatto di essere stata fermata qui, di non potermi più seminare per strada in una serie interminabile di cose da fare, in tappe programmate da percorrere, che mi fa paura.
Mi fa paura stare ferma e non fare niente, ad osservare il fatto che potrei persino mollare, lasciarmi andare. Perciò sono stata trattenuta in questo luogo, ora ne sono certa: per finire di imparare questa lezione.
2 thoughts on “India 4, quello che semini raccogli”
Il finale è anche una lezione per me. Grazie Giulia. La malattia occidentale è la paura di non essere mai all’altezza e, di conseguenza, l’ansia di correre e ingoiare. Fermarsi spaventa. Accorgersi della parte che, ognuno di noi recita nella realtà, per piacere agli “altri” è un privilegio e un estraniarsi dal tumulto mediatico. E visto che ti occupi di teatro, il dramma è la confusione tra attore e personaggio. La nostra civiltà ha confuso i ruoli. Interpretare se stessi è difficile. Bisogna compiere piccoli passi per imparare ad essere autori e poi attori vivi della propria autenticità. Come dici spesso dobbiamo perdere i pezzi pesanti del nostro passato nei quali si investe energia per tenerli in vita. Aspetto di leggerti come quando si rimane colpiti dalla bellezza di un fiore o di un tramonto. Buona crescita.
Grazie Ruggero!