A Tiruvannamalai si viene in sostanza per una sola ragione: attendere il giorno in cui Lord Shiva ti chiamerà a sé, in cui potrai fare la grande scalata della montagna Arunachala, il suo palazzo. Prima di comunicartelo, ti fa capire quando non devi andare, creando tutta una serie di impedimenti affinché tu non faccia di testa tua. Poi all’improvviso, quando arriva il momento giusto, lo sai con strumenti non della ragione, che qui serve appena a fare da ancella a organi del sentire più utili a captare la vita. Ieri per me era quel giorno. E se sali la montagna, è perché ti deve dire qualcosa.
Era la mia terza scalata, la mia terza chiamata, e non è stata più semplice delle altre volte. Ai primi passi avevo ogni tipo di pensiero, anche pensieri molto basici tipo: “Come sono finita a seguire tutto questo mondo così distante dal mio? Cosa ci faccio qui, così lontana dal buonsenso?”. Per fortuna si tratta di domande che hanno sempre meno forza di farmi diventare tiepida con le cose che mi ha portato la vita, senza che io facessi nulla per forzare. So che ho avuto la ricerca interiore da sempre come unica vera direzione. So anche di aver cercato la strada in tanti sentieri, di poter tranquillamente leggere i mistici cristiani, i poeti, che sono la mia passione, i diari di altri ricercatori – e tra tutti della mia Etty Hillesum -, e anche inginocchiarmi a Shiva senza sentire nessuna parte ribelle dentro di me.
So di essere certa di non volere una fede cieca, un dogma, bensì un’esperienza a cui affidarmi, e che ho scoperto che inginocchiarmi, pregare, avvicinarmi all’anima dal corpo, attraverso lo yoga, e lasciare che l’anima espanda dall’interno il corpo stesso, lo renda più flessibile a colpi di luce, mi ha reso più solida, più consapevole, più potente, e che non vorrei mai più tornare indietro.
Tutto questo ha dato un senso alla mia vita, ha messo in ordine i passi del cammino, che prima procedevano casuali qui e là, senza trovare pace. E non mi pare per nulla giusto allora essere timida con il cielo, affermarlo a metà, trovare sinonimi solo perché vivo in un mondo che si è così tanto allontanato dalla verità. Non mi interessa l’orientalismo di moda, e neppure il positive-thinking: voglio andare direttamente alla casa madre, dove c’è già tutto, da oltre 5000 anni, lo stesso intero che Cristo ha ribadito più di 2000 anni fa. Se faccio questo cammino, voglio provare a fare sul serio, pensavo.
E intanto i miei piedi cercavano appoggi tra le rocce fragmentate della montagna, le mani si aiutavano cercando appigli tra i rami: il percorso era piuttosto verticale, e il fiato a volte non bastava e dovevo fermarmi a ritrovarne un po’. Ancora non era l’alba, appena appena si vedevano i dardeggi del sole, ma faceva già molto caldo. A tratti ho pensato che forse avevo capito male: che non ero pronta, che era troppo faticoso e sarei ritornata indietro.
Accanto a questo linguaggio del corpo, proseguiva intanto una sorta di riassunto del cammino della vita. L’infelicità colossale quando non trovavo un significato alla fatica e ai momenti di sofferenza che sono comunque la maggior parte dell’esistenza. Eppure ogni volta l’esperienza, dopo un dolore accolto, di una nuova espansione di luce, di consapevolezza, che mi salvava.
E poi la rinascita attraverso una grande compassione umana, il desiderio di comunicare a tutte le persone dei luoghi più sofferenti del mondo che anche il dolore aveva uno scopo, ed era quello di rovesciarsi in amore, in solidarietà. Nutrirmi d’amore, semplicemente dandolo, questo era diventata la mia vita. In fondo così ero arrivata anche qui, in questa terra, al termine di tante peregrinazioni, giustificate dal lavoro di reporter.
Ma a un certo punto anche questo non bastava più. Davo fino a sfinirmi, amavo per chiedere amore, e poi crollavo esausta, e dovevo ritirarmi per trovare la forza di ripartire. E le richieste erano così tante, così sempre più grandi delle mie forze che non potevo farcela. Era diventato presuntuoso pensare di fare tutto da me. Qualcosa non stava funzionando. Non mi ero neppure accorta che il corpo nel frattempo era andato oltre la fatica, che non ragionava più in termini di ‘quanto manca?’, che non si disperava perché quella cima, che sembrava sempre più vicina, all’improvviso ritornava lontanissima.
Ho alzato gli occhi e mi pareva che mancasse sempre la stessa distanza. Ho smesso di contare il tempo. A quel punto sono arrivata. Mi sono seduta e non ho chiesto. Non ho cercato, molte parti vecchie di me erano cadute durante il percorso, ero scoperta, ad anima nuda, riuscivo solo ad essere. Non attendevo niente, ed è arrivato tutto.
E’ stato solo un respiro, una forza che entra dentro e ti nutre, e un’altra che esce da te e con cui puoi nutrire a tua volta. Un altro respiro: se non ricevi, non puoi dare a nessuno. Il messaggio cominciava a diventare sempre più chiaro: con le tue forze puoi arrivare solo fino ad un certo punto, e in fondo per te è molto più facile amare che essere amata. Ma non c’è più onore nell’uno rispetto all’altro, e se non sono insieme, non sono per nulla.
La forza che mi attraversava era sempre più limpida, era me ma era anche altro da me. Ho percepito con chiarezza che avevo pensato di partecipare alla creazione aprendo una sola porta del cuore, ma non era possibile, sarebbe come pensare che quel soffio che ti dà la vita, una volta entrato in te, sia davvero te, il tuo ego, e non un pezzo di luce eterna di cui tu puoi al massimo essere un canale. Ma allora devi lasciarlo entrare per poterlo a tua volta irradiare. A questo punto le forze non finiscono più, perché sei davvero connessa con una realtà più grande, hai messo la tua ancora in cielo.
Così, da ieri, accorgendomi di respirare, ho iniziato a sentire il sostegno stesso del flusso della vita.
One thought on “India 3, le due porte della pienezza”
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